ARTHUR C. CLARKE

LE GUIDE DEL TRAMONTO

(Childhood's End, 1953)

 

PROLOGO

 

Il vulcano che aveva tratto Taratua dalle profondità del Pacifico dormiva ormai da mezzo milione d'anni. Pure, fra non molto, pensava Reinhold Hoffmann, l'isola sarebbe stata avvolta da fiamme più ardenti di quelle che avevano battezzato la sua nascita. L'uomo volse lo sguardo verso la base di lancio e percorse con gli occhi l'impalcatura che circondava il "Columbus". A settanta metri dal suolo, la prua dell'astronave si bagnava negli ultimi raggi del sole al tramonto. Quella era una delle ultime notti che essa avrebbe conosciuto: tra breve sarebbe stata sospesa nella luce del sole che splende eternamente nello spazio interplanetario.

Si stava bene lì, sotto le palme che crescevano alte lungo una linea ideale che percorreva l'isola longitudinalmente. Gli unici rumori che venivano dalla base del Progetto erano il ronzio di un compressore o la voce di un tecnico. Reinhold era sempre stato orgoglioso di quelle palme, e quasi ogni sera andava lì a sorvegliare il suo piccolo regno. Lo rattristava l'idea che i suoi alberi sarebbero stati ridotti in cenere quando il "Columbus" si sarebbe alzato su una furia di fuoco per salire alle stelle.

A due chilometri dai frangenti, la "James Forrestal" aveva acceso i riflettori, e i potenti fasci di luce bianchissima spazzavano le acque nere. Il sole era scomparso del tutto, ora, e la veloce notte dei tropici precipitava la sua corsa da oriente. Reinhold si chiese, sarcastico, se la portaerei si aspettava di trovare sub russi così vicini alla costa.

Il pensiero della Russia gli ricordò, come sempre, Konrad e quel mattino della catastrofica primavera del 1945. Erano passati più di trent'anni, ma il ricordo di quegli ultimi giorni, quando il Reich cadeva in rovina sotto le ondate che lo investivano da oriente e da occidente, non si era mai offuscato. Vedeva ancora gli azzurri occhi stanchi di Konrad, la faccia coperta da una peluria dorata, quando si erano stretti la mano dicendosi addio tra le rovine d'un villaggio prussiano, coi profughi che passavano in una lunga fila interminabile. Il loro addio aveva simboleggiato quello che era poi avvenuto nel mondo: la frattura tra Est e Ovest. Konrad aveva scelto la strada di Mosca, e Reinhold, allora, aveva pensato che era pazzo, ma adesso non ne era più tanto convinto.

Per trent'anni aveva creduto che Konrad fosse morto. Ma, una settimana prima, il colonnello Sandmeyer del Servizio Segreto gli aveva dato la notizia. Sandmeyer non gli piaceva, e probabilmente l'antipatia era reciproca. Ma i sentimenti personali non c'entravano col lavoro.

«Signor Hoffmann» aveva cominciato il colonnello, in tono molto ufficiale «ricevo ora da Washington delle informazioni alquanto preoccupanti. Abbiamo deciso di comunicarle al personale tecnico perché capisca che bisogna accelerare i tempi.» Aveva fatto una pausa a effetto, sprecata con Reinhold, il quale prevedeva già il seguito,

«I russi sono quasi alla pari con noi. Dispongono di una specie di propulsione atomica, che potrebbe essere anche più potente ed efficace del nostro sistema di propulsione, e stanno costruendo un'astronave sulle rive del lago Baikal. Non sappiamo a che punto siano, ma i nostri servizi di spionaggio pensano che il lancio possa avvenire entro l'anno. Sapete che cosa significa.»

Sì, aveva pensato Reinhold, lo so. La gara è cominciata, e noi possiamo anche perderla.

«Si sa per caso chi dirige i lavori?» aveva chiesto, con poca speranza di avere una risposta. Invece, il colonnello Sandmeyer aveva spinto verso di lui un foglio con un elenco di nomi. Il primo era quello del suo vecchio amico: Konrad Schneider.

«Conoscevate quasi tutti quelli di Peenemünde, vero?» aveva detto il colonnello. «Vi sarei grato di farmi avere per ognuno il maggior numero possibile di dati: le loro specialità, le idee migliori che avevate sentito formulare a suo tempo, e così via. So che può sembrare una richiesta esagerata, dopo tanti anni, ma vedete un po' di fare quello che potete.»

«L'unico veramente importante è Konrad Schneider» aveva risposto Reinhold. «Era un uomo geniale. Gli altri erano soltanto ingegneri ben preparati. Dio solo sa che cosa può aver fatto in trent'anni. Non dimentichiamo che lui aveva la possibilità di essere informato di ogni nostro progresso, mentre noi ignoriamo tutto dei suoi risultati. Questo lo mette in netto vantaggio su di noi.»

Non c'era stata nessuna intenzione in lui di muovere critiche ai Servizi Segreti, ma per un istante il colonnello si era irrigidito. Poi Sandmeyer aveva scosso la testa.

«È come una lama a due tagli... l'avete detto anche voi più di una volta. Il libero scambio di informazioni scientifiche permette progressi più rapidi, anche se implica per noi la divulgazione di qualche segreto scientifico. Probabilmente, i dipartimenti russi per le ricerche scientifiche non sanno come i loro tecnici impieghino metà del tempo. Noi mostreremo loro che la Democrazia giungerà prima sulla Luna.»

Democrazia... che fesserie! aveva pensato Reinhold, ma si era guardato bene dal dirlo. Un solo Konrad Schneider valeva milioni di nomi su una lista elettorale. Che cosa aveva fatto, in trent'anni, Konrad, con le risorse dell'URSS? Forse, in quello stesso momento, la sua astronave filava già nello spazio, libera dall'attrazione terrestre...

 

Il sole aveva abbandonato Taratua, ma era ancora alto nel cielo sopra il lago Baikal, quando Konrad Schneider e il vice commissario per le Scienze Nucleari uscirono lentamente dal capannone dove venivano provati i motori. Avevano nelle orecchie ancora il rombo assordante, sebbene l'ultima eco si fosse spenta in un muggito prolungato sulle acque del lago da una decina di minuti.

«Perché così serio?» chiese Grigorievic. «Dovresti essere contento. Fra un mese noi saremo in viaggio nello spazio cosmico, e gli yankee soffocheranno di rabbia.»

«Ottimista come al solito» disse Schneider. «Anche se i motori funzionano, non sarà tanto semplice, credimi, e le notizie che abbiamo di Taratua mi preoccupano. Ti ho detto più volte che Hoffmann è un uomo di qualità eccezionali, e per di più può contare su miliardi di dollari. Le fotografie della sua astronave non erano molto chiare, ma sembra che sia quasi ultimata. Inoltre, Hoffmann ha finito le prove dei motori cinque settimane fa.»

«Oh, non preoccuparti» rise Grigorievic. «Sono gli americani, vedrai, che avranno la più grande sorpresa della loro storia. Ricordati, loro non sanno niente dei nostri progetti.»

Schneider si chiese se fosse vero, ma non osò esprimere dubbi. Avrebbe potuto mettere in moto la mente di Grigorievic per sentieri troppo tortuosi, e se alla fine si fosse scoperta una falla, lui si sarebbe trovato nei guai per chiarire la sua supposizione.

La sentinella li salutò quando rientrarono nella palazzina della direzione. Schneider pensò che il personale militare era quasi più numeroso di quello tecnico. Ma questo era il sistema dei russi, e finché non gli davano fastidio, lui non aveva motivo di lamentarsi. Fino a quel momento, nel complesso, a parte qualche sporadico episodio esasperante, le cose erano andate meglio di quanto avesse sperato. Ma, in definitiva, solo il futuro avrebbe stabilito se aveva scelto meglio lui o Reinhold.

Stava già lavorando sulla sua relazione finale, quando fu distratto da un vocio disordinato. Per qualche istante rimase seduto immobile alla sua scrivania, a chiedersi quale inconcepibile evento poteva aver distrutto la rigida disciplina della base.

Poi andò alla finestra, e per la prima volta in vita sua conobbe veramente la disfatta e la disperazione.

Scendere lungo il fianco della piccola altura, pensò Reinhold, era come camminare in mezzo alle stelle. Al largo, la "Forrestal" continuava a spazzare le acque con i fari, mentre sulla spiaggia la rampa di lancio del "Columbus" si era trasformata in un albero di Natale sfavillante di luci. Solo la prua dell'astronave era un'ombra scura sullo sfondo delle stelle.

Dagli alloggiamenti una radio diffondeva musica da ballo, e senza accorgersene Reinhold accelerò il passo seguendo il ritmo del ballabile. Era quasi arrivato allo stretto sentiero oltre il quale cominciava la distesa sabbiosa, quando un presentimento, o forse un rapido moto colto di sfuggita, lo fece fermare di colpo. Perplesso, spinse lo sguardo dalla costa dell'isola al mare aperto, e poi di nuovo sulla spiaggia. Passò qualche secondo prima che pensasse di alzare gli occhi al cielo.

E allora Reinhold Hoffmann seppe, come l'aveva saputo Konrad Schneider nello stesso istante, d'aver perso la gara. E seppe di averla persa non per qualche settimana, o qualche mese di ritardo, come aveva temuto, ma per migliaia e migliaia di anni. Le immense forme che si muovevano silenziose fra le stelle, a un'altezza che Reinhold non osò nemmeno calcolare, erano di tanto più progredite rispetto al suo piccolo "Columbus" di quanto lo era il "Columbus" al confronto delle canoe dell'uomo paleolitico. Per un attimo che parve eterno, Reinhold stette a guardare, come stava guardando tutto il mondo, le grandi astronavi che scendevano verso la Terra in tutta la loro schiacciante maestosità, e poi sentì l'urlo dell'aria colpita dal loro passaggio nella rarefatta stratosfera.

Non ebbe rimpianti per il lavoro di tutta una vita spazzato via in un attimo. Aveva lottato per portare l'uomo tra le stelle, e, al momento di cogliere il successo, le stelle, le remote, altere stelle indifferenti, erano andate da lui. Era, quello, uno dei momenti in cui la storia trattiene il respiro, e il presente si stacca dal passato come un iceberg che rompe ogni legame col monte di ghiaccio in cui è cresciuto per andarsene da solo per l'oceano, orgoglioso della propria autosufficienza. Tutto ciò che era stato fatto nei secoli passati, non aveva più valore, ora. Un solo pensiero riecheggiava nel cervello di Reinhold: la razza umana non era più sola.

 

PARTE PRIMA

LA TERRA E I SUPERNI

 

1

 

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite stava immobile davanti alla grande finestra a guardare il traffico, giù, nella Quarantatreesima Strada. A volte si chiedeva se era un bene lavorare a tale altezza al di sopra dei propri simili. Un certo distacco ci voleva, ma poteva portare molto facilmente all'indifferenza. O era quello un tentativo di razionalizzare la sua antipatia per i grattacieli, ancora viva in lui dopo vent'anni di permanenza a New York?

Sentì aprire la porta, ma non si voltò quando Pieter van Ryberg entrò nella stanza. Ci fu l'inevitabile pausa, mentre Pieter guardava con aria di disapprovazione il termostato: il fatto che al Segretario Generale piacesse vivere in un frigorifero era fonte di continue ironie. Stormgren attese che l'assistente lo raggiungesse alla finestra, prima di staccare lo sguardo dal panorama familiare ma sempre affascinante della strada.

«I nostri amici sono in ritardo» disse. «Wainwright dovrebbe essere già qui da cinque minuti.»

«Ho avuto notizie adesso dalla polizia. Wainwright è seguito da un vero corteo che ha prodotto un ingorgo nel traffico. Ma dovrebbe arrivare da un momento all'altro.» Pieter van Ryberg fece una pausa, poi domandò bruscamente: «Siete sempre convinto che sia stata una buona idea accettare questo incontro?»

«Temo che sia un po' tardi, ormai, per fare marcia indietro. Dopo tutto, ho accettato, anche se sapete che non è mai stata un'idea mia.»

Stormgren si era avvicinato alla scrivania e si stava gingillando col suo fermacarte d'uranio. Non era nervoso o preoccupato, ma soltanto perplesso. Inoltre, era contento del ritardo di Wainwright: gli avrebbe dato un leggero vantaggio morale quando il colloquio avesse avuto inizio. Banalità di questo genere avevano, nelle vicende umane, una importanza maggiore di quanto potesse desiderare chiunque fidasse nella logica.

«Eccoli!» disse a un tratto Van Ryberg, premendo la faccia contro il vetro della finestra. «Stanno arrivando dalla Avenue... saranno almeno tremila...»

Stormgren prese il suo taccuino e tornò alla finestra. A meno di un chilometro di distanza una folla decisa muoveva lentamente verso il Palazzo del Ministero. Inalberava cartelli con scritte, indecifrabili a quella distanza. Ma Stormgren le conosceva già. Dalla strada, sopra il rumore del traffico, venivano le voci dei dimostranti, minacciose nello scandire dei loro slogan. Possibile che il mondo non ne avesse avuto ancora abbastanza di cortei di protesta e di slogan arrabbiati?

La turba era giunta davanti al palazzo. Probabilmente sapevano che lui stava guardando la manifestazione, perché qua e là dei pugni vennero agitati in alto, convulsi. Non intendevano sfidare lui, anche se il gesto era fatto con l'intenzione che Stormgren lo vedesse. Come i pigmei che minacciavano un gigante, quei pugni erano puntati contro un punto del cielo cinquanta chilometri al di sopra delle loro teste, contro una rilucente sagoma argentea: la nave ammiraglia della flotta dei Superni.

E, molto probabilmente, pensò Stormgren, Karellen stava osservando tutto quel che succedeva e si divertiva enormemente, perché quella manifestazione non sarebbe avvenuta senza il consenso del Controllore.

Quella era la prima volta che Stormgren s'incontrava col capo della Lega della Libertà. Aveva smesso di chiedersi se il passo fosse saggio, dato che i piani di Karellen erano spesso troppo sottili per un'intelligenza semplicemente umana. Nella peggiore delle ipotesi, però, a Stormgren non pareva che da quella iniziativa potesse venire un danno. Invece, se avesse rifiutato di vedere Wainwright, la Lega si sarebbe servita del rifiuto contro di lui.

Alexander Wainwright era un bell'uomo, alto, sulla cinquantina. E, come risultava a Stormgren, era onesto, quindi doppiamente pericoloso. Ma la sua sincerità evidente impediva di provare antipatia per lui, qualunque fossero i sentimenti verso la sua causa e verso una parte dei suoi seguaci.

Dopo la presentazione di Van Ryberg, Stormgren entrò subito in argomento.

«Immagino» cominciò «che lo scopo principale della vostra visita sia una protesta ufficiale contro il Progetto della Federazione. Esatto?»

Wainwright annuì gravemente.

«Questo è lo scopo principale, infatti, signor Segretario. Come sapete, negli ultimi cinque anni abbiamo cercato di aprire gli occhi alla razza umana perché vedesse il pericolo che la minaccia. Il compito è stato difficile, perché la maggior parte degli esseri umani sembra contenta che i Superni dominino il mondo a loro piacere. Tuttavia, oltre cinque milioni di patrioti hanno firmato la nostra petizione.»

«Non mi sembrano poi molti di fronte a due miliardi e mezzo di esseri umani.»

«È comunque una cifra di cui non si può non tener conto. E, per ogni persona che ha firmato, ne esistono molte che nutrono dubbi profondi sulla saggezza, per non dire la giustizia, del piano della Federazione. Lo stesso Supercontrollore Karellen, nonostante i suoi immensi poteri, non può annullare con un colpo di spugna millenni di storia.»

«Chi conosce realmente i poteri di Karellen?» disse Stormgren. «Quand'ero ragazzo, la Federazione Europea era un sogno, ma era una realtà quando divenni uomo. E ciò fu prima dell'arrivo dei Superni. Karellen sta semplicemente ultimando l'opera.»

«L'Europa era un'entità cultuale e geografica. Il mondo intero, no. Questa è la differenza.»

«Per i Superni» rispose Stormgren, sarcastico «la Terra è probabilmente molto più piccola di quanto non lo fosse l'Europa agli occhi dei nostri padri... e il loro punto di vista, direi, è più maturo del nostro.»

«Io non sono contro la Federazione per principio, nonostante il parere di molti sostenitori della Lega. Ma penso che la decisione debba venire da noi e non esserci imposta dall'esterno. Dobbiamo essere noi a decidere il nostro destino. Basta con le interferenze nelle faccende del genere umano!»

Stormgren sospirò. Argomenti simili li aveva sentiti centinaia di volte, ma poteva solo dare la stessa risposta che la Lega della Libertà aveva già rifiutato. Lui aveva fede in Karellen, e loro no. Questa era la differenza fondamentale, e lui non poteva farci niente.

«Permettetemi di farvi un paio di domande» disse. «Potete negare che i Superni abbiano portato pace, prosperità e sicurezza al nostro pianeta?»

«Non lo nego. Però ci hanno tolto la libertà. L'uomo non vive...»

«... di solo pane, lo so. Ma è la prima volta nella sua storia che ogni uomo ha la certezza di averlo, il pane. E comunque, che cosa è la libertà che abbiamo perduto, in confronto a ciò che i Superni ci hanno dato per la prima volta nella storia del genere umano?»

«La libertà di vivere secondo noi stessi, sotto la guida di Dio.»

Finalmente, pensò Stormgren, siamo arrivati al punto. Fondamentalmente si tratta di un dissidio religioso, per quanto mascherato. Wainwright non permetteva mai di dimenticare che un tempo era stato uomo di chiesa. Ora non indossava più l'abito talare, ma si aveva sempre l'impressione che indossasse ancora la tonaca.

«Il mese scorso» disse Stormgren «cento vescovi, cardinali e rabbini hanno firmato una dichiarazione nella quale confermavano il loro appoggio alla linea di condotta del Supercontrollore. Le religioni del mondo sono contro di voi.»

Wainwright scosse la testa in un gesto rabbioso di diniego.

«Molti capi sono ciechi: sono stati corrotti dai Superni. Quando si renderanno conto del pericolo, sarà troppo tardi. L'umanità avrà perso il suo spirito d'iniziativa e sarà diventata una razza schiava.»

Seguì un breve silenzio, infine Stormgren rispose: «Fra tre giorni m'incontrerò di nuovo col Supercontrollore. Gli esporrò le vostre obiezioni perché è mio dovere metterlo al corrente delle opinioni dei terrestri, ma non cambierà niente, ve lo posso garantire.»

«C'è un altro punto che vorrei chiarire» disse Wainwright, lentamente. «Sono molte le cose che non ci piacciono nei Superni, ma soprattutto detestiamo il mistero di cui si circondano. Voi siete il solo essere umano che abbia mai parlato con il Supercontrollore Karellen, ma anche voi non lo avete mai visto. Vi sorprende che si dubiti della sua buona fede?»

«Nonostante tutto quello che ha fatto per l'umanità?»

«Nonostante tutto quello che ha fatto. Non so che cosa ci disturbi di più, se l'onnipotenza di Karellen o il mistero di cui è avvolto. Se non ha niente da nascondere, perché non si è mai rivelato com'è? La prossima volta che parlerete col Supercontrollore, signor Stormgren, chiedeteglielo.»

Stormgren non disse niente. Non c'era niente da dire, infatti. Niente, comunque, che avrebbe convinto Wainwright. Tanto più che Stormgren a volte dubitava di essere riuscito a convincere veramente se stesso.

Dal loro punto di vista, si era trattato di una missione trascurabile, ma per i terrestri era l'evento più importante che li avesse mai colpiti. Non c'erano state avvisaglie quando le grandi astronavi avevano cominciato a scendere dalle sconosciute profondità dello spazio. Innumerevoli volte quel momento era stato descritto nelle opere di fantascienza, ma nessuno aveva mai creduto che un giorno potesse succedere veramente. Ma quel giorno era venuto: le lucenti sagome che ondeggiavano silenziose sopra ogni nazione erano il simbolo di un progresso scientifico che l'uomo non avrebbe raggiunto per chissà quanti secoli. Per sei giorni erano rimaste sospese nella più assoluta immobilità sulle metropoli della Terra, senza fare niente, quasi ne ignorassero l'esistenza. Ma non c'era bisogno che dimostrassero di sapere cosa c'era sotto di loro. Non poteva essere per caso che quelle astronavi si fossero fermate sopra New York, Londra, Parigi, Mosca, Roma, Città del Capo, Tokyo, Canberra...

Anche prima che giungessero quei giorni di panico, qualcuno aveva intuito la verità. Quello non era che un primo tentativo di contatto da parte di una razza che ignorava tutto dell'uomo. Dentro le silenziose astronavi immobili, studiosi di psicologia stavano certamente esaminando le reazioni dei terrestri. E, quando la tensione sarebbe arrivata all'apice, allora avrebbero agito.

Il sesto giorno, Karellen, Supercontrollore per la Terra, si fece conoscere agli uomini in una trasmissione radio che bloccò tutte le radiofrequenze. Parlò in inglese perfetto, scatenando discussioni che infuriarono oltre l'Atlantico per una generazione intera. Ma il significato del discorso fu più sbalorditivo della lingua usata per pronunciarlo. Fu indubbiamente il discorso di un genio che dimostrò di conoscere alla perfezione le questioni terrestri. Nessun dubbio che la virtuosità di quel discorso, gli accenni a conquiste scientifiche ancora lontane per l'uomo erano destinati a convincere il genere umano che si trovava di fronte a forze intellettuali infinitamente superiori, Quando Karellen ebbe finito, ogni nazione seppe che i suoi giorni di precaria sovranità erano finiti. I governi locali avrebbero conservato il potere, ma nel campo più vasto degli affari internazionali non sarebbero più stati gli uomini a decidere. Polemiche, proteste, fu tutto inutile.

Naturalmente non ci si poteva aspettare che tutte le nazioni avrebbero accettato con passiva rassegnazione un tale limite ai loro poteri. Ma la ribellione aperta si rivelò irta di difficoltà, perché la distruzione delle astronavi dei Superni, ammesso che l'impresa fosse possibile, avrebbe comportato la distruzione delle città sotto di esse. Tuttavia, una delle grandi potenze aveva tentato,

Forse quella nazione aveva sperato di prendere due piccioni... con un missile atomico, dato che il bersaglio era l'astronave sopra la capitale di una nazione confinante e ostile.

Nel momento in cui l'immagine della grande astronave si dilatava sullo schermo televisivo della segreta sala d'operazioni, i militari e i tecnici presenti dovevano essere stati travolti dalle loro stesse emozioni. Se avessero raggiunto il loro scopo, cosa avrebbero fatto le altre astronavi? Si poteva distruggerle tutte restituendo all'umanità il suo libero arbitrio, o Karellen avrebbe scatenato una tremenda vendetta su chi lo aveva attaccato?

Di colpo, nell'attimo in cui il missile si disintegrava all'impatto, l'immagine sparì dallo schermo e immediatamente passò ad una telecamera aerea lontana chilometri e chilometri. In quella frazione di secondo, la sfera di fuoco formatasi in seguito all'esplosione avrebbe dovuto riempire il cielo con la sua incandescenza.

Invece non era successo niente. L'astronave si librava illesa, illuminata dal sole ai limiti dello spazio visibile. Non solo non era stata colpita, ma nessuno avrebbe saputo dire cosa fosse successo al missile. Karellen non prese nessun provvedimento contro i responsabili dell'attacco, e si sarebbe detto perfino che non se ne fosse accorto. Ignorò sdegnosamente il fatto lasciando i responsabili a tormentarsi nell'attesa di una rappresaglia che non venne mai. Un atteggiamento più efficace e più demoralizzante di qualsiasi azione punitiva. Poche settimane dopo, il governo responsabile entrò in crisi per le accuse reciproche dei suoi membri.

C'era stata anche la resistenza passiva alla politica dei Superni. Karellen ne aveva avuto ragione col semplice espediente di lasciare che i ribelli agissero a modo loro scoprendo a loro spese che non collaborando danneggiavano soltanto se stessi. Solo in un'occasione Karellen era ricorso all'azione diretta nei riguardi di un governo recalcitrante.

Da oltre cento anni, la Repubblica del Sud Africa era il centro di una accanita lotta razziale. Uomini di buona volontà dall'una e dall'altra parte avevano cercato di sanare la frattura, ma senza riuscirci: paure e pregiudizi erano radicati troppo profondamente in tutti per consentire la minima collaborazione fra le due parti. I vari governi che si erano succeduti erano differiti soltanto nel grado della loro tolleranza, e ormai il Paese era avvelenato dall'odio e dagli effetti della guerra civile. Quando fu chiaro che nessun tentativo sarebbe stato fatto per mettere fine alla discriminazione razziale, Karellen intervenne. Si limitò a comunicare una data: giorno e ora, niente di più. Ci fu un po' di apprensione, ma né paura né panico, perché nessuno credeva che i Superni sarebbero ricorsi alla violenza o a una azione distruttiva che avrebbe coinvolto colpevoli e innocenti.

E infatti non lo fecero. Tutto quello che accadde fu che il sole, passando il meridiano di Città del Capo, si spense. Rimase solo un pallido disco inerte che non mandava né luce né calore. Lassù nello spazio due campi incrociati avevano polarizzato la luce del sole impedendo il passaggio di qualsiasi radiazione. L'area interessata aveva un diametro di cinquecento chilometri ed era perfettamente circolare.

La dimostrazione durò esattamente trenta minuti. Fu sufficiente: il giorno dopo, il governo del Sud Africa annunciò la reintegrazione dei pieni diritti civili alla minoranza bianca.

A parte questi incidenti isolati, la razza umana aveva accettato i Superni come parte dell'ordine naturale delle cose. In un tempo straordinariamente breve, l'impressione iniziale si era attenuata fino a scomparire del tutto, e il mondo aveva ripreso la sua vita. Il maggior mutamento che un mitico Aligi, destatosi dopo un sonno secolare, avrebbe notato, era un'aspettativa in sordina, uno sbirciare mentale, in attesa che i Superni uscissero dalle loro lucenti astronavi per mostrarsi agli uomini.

Cinque anni dopo, l'umanità stava ancora aspettando. Era questa, pensava Stormgren, la causa di tutti i guai.

 

C'era il solito gruppo di curiosi, di giornalisti e di fotografi e di telecronisti, quando la macchina di Stormgren arrivò sulla pista dell'aeroporto. Il Segretario Generale scambiò alcune parole all'ultimo momento col suo assistente, prese la borsa di pelle e si avviò in mezzo a due ali di folla.

Karellen non lo faceva mai aspettare a lungo. Ci fu un'esclamazione improvvisa della folla, e una bolla argentea si dilatò nel cielo con velocità incredibile. Una raffica di vento investì Stormgren nell'istante in cui il piccolo veicolo spaziale si fermava a una cinquantina di metri, restando sospeso a pochi centimetri dal suolo, quasi timoroso di un contatto con la Terra. Mentre camminava lentamente verso la folla, Stormgren vide il familiare raggrinzarsi dello scafo metallico apparentemente senza connessure, e un attimo dopo l'apertura che aveva tanto stupito i più celebri scienziati del pianeta si rivelò. Lui entrò nell'unica sala scarsamente illuminata della piccola astronave. L'apertura si richiuse senza lasciare traccia, escludendo ogni suono e ogni vista dall'esterno.

Si riaprì cinque minuti più tardi. Non aveva avuto nessuna sensazione di movimento, ma Stormgren sapeva di essere a cinquanta chilometri sopra la Terra, profondamente incuneato nel cuore della nave cosmica di Karellen. Era tra i Superni: intorno a lui essi erano intenti alle loro misteriose faccende.

Stormgren era spesso andato più vicino a loro di qualsiasi altro uomo, eppure come ogni altro terrestre ignorava tutto del loro aspetto fisico.

La saletta delle riunioni in fondo al breve passaggio era arredata unicamente con una sedia e un tavolino sotto il teleschermo e, secondo le intenzioni, non rivelava assolutamente nulla delle creature che l'avevano costruita. Lo schermo era vuoto e spento, come l'aveva sempre visto Stormgren. Talvolta in sogno, lui immaginava di vederlo accendersi improvvisamente, rivelando il segreto che assillava il mondo. Ma il sogno non si era mai avverato: dietro quel rettangolo di tenebra si annidava il mistero più impenetrabile. Ma vi si nascondeva anche potenza e saggezza, e soprattutto una infinita tolleranza, una specie di divertito sentimento di affetto per le piccole creature che si affannavano sul pianeta Terra.

Dalla grata nascosta venne la voce calma, mai assillata dalla fretta, che Stormgren conosceva tanto bene e che il mondo aveva sentito una volta sola nella sua storia. La profondità e la risonanza di quella voce erano la sola indicazione sulla natura fisica di Karellen, e dava una chiara impressione delle sue dimensioni: Karellen doveva essere altissimo, più grande di un essere umano. Alcuni scienziati, però, dopo avere analizzato la registrazione del suo discorso, avevano prospettato l'ipotesi che la voce fosse quella di una macchina, ma Stormgren non poteva crederci.

«Sì, Rikki, ho seguito il vostro breve colloquio. Che cosa ne pensate del signor Wainwright?»

«È un uomo onesto, anche se molti suoi seguaci non lo sono. Che cosa dobbiamo fare? La Lega in sé non è pericolosa, ma alcuni dei suoi estremisti sono apertamente per la violenza. Mi sono chiesto se non fosse il caso di chiedere una guardia del corpo, ma spero che non sia necessario.»

Con l'atteggiamento irritante che aveva spesso, Karellen non prese in considerazione l'argomento.

«Da un mese ormai si conoscono i particolari sull'andamento della Federazione Mondiale. C'è stato un sensibile aumento sulla vecchia percentuale del sette per cento dei miei oppositori, o sul dodici per cento degli agnostici?»

«No, ma non è questo il punto più importante. Mi preoccupa, piuttosto, il sentimento generale, diffuso anche tra i vostri sostenitori, che è tempo di svelare il mistero di cui vi circondate.»

Il sospiro di Karellen fu tecnicamente perfetto, ma mancava di convinzione.

«Ed è anche il vostro sentimento, non è vero?»

La domanda era retorica, e Stormgren non si preoccupò di rispondere.

«Mi domando se vi rendete conto» continuò seriamente «di come questa situazione renda difficile il mio lavoro...»

«Credetemi, non facilita nemmeno il mio» rispose Karellen, con una certa vivacità. «Vorrei che la gente la smettesse di considerarmi un dittatore e si ricordasse che sono soltanto un funzionario incaricato di seguire una politica coloniale nella cui elaborazione non ha messo mano.»

Questa definizione di sé, pensò Stormgren, era alquanto impegnativa; ma fino a che punto corrispondeva alla verità?

«Non potreste almeno darci una spiegazione per la vostra invisibilità? Noi non riusciamo a trovarne, e la cosa ci disturba e fa nascere chiacchiere interminabili.»

Karellen fece udire la sua risata profonda, troppo risonante per essere del tutto umana.

«Che cosa si crede di me, adesso? La teoria del robot è ancora valida? Preferirei, comunque essere una massa di valvole elettroniche che qualcosa di simile a un millepiedi... ah, sì, ho visto ieri quella vignetta sul "Chicago Tribune"! Ho una mezza idea di chiederne l'originale!»

Stormgren strinse le labbra. C'erano momenti in cui Karellen sembrava prendere i suoi doveri troppo alla leggera.

«Si tratta di una cosa molto seria» disse il Segretario Generale in tono di rimprovero.

«Mio caro Rikki» rispose Karellen «ma è soltanto non prendendo la razza umana sul serio, che riesco a conservare quel che ancora mi resta della mia forza mentale, assai considerevole un tempo.»

Stormgren non poté fare a meno di sorridere.

«Non mi avete dato un grande aiuto, non vi pare? Dovrò tornare laggiù a convincere i miei simili che, sebbene non vi facciate vedere, non avete niente da nascondere. Non sarà facile, ve lo assicuro. La curiosità è una delle caratteristiche umane dominanti. Non potete sfidarla in eterno.»

«Fra tutti i problemi che abbiamo dovuto affrontare quando siamo venuti sulla Terra, questo è stato il più arduo» ammise Karellen. «Vi siete fidati della nostra saggezza per altre cose, sicuramente potete fidarvi anche per questo.»

«Io ho fiducia in voi» disse Stormgren «ma Wainwright no, e meno ancora i suoi seguaci. Vi sentite di condannarli se interpretano in senso negativo il vostro rifiuto a mostrarvi?»

Seguì un lungo silenzio. Poi Stormgren udì un lieve rumore (uno scricchiolio forse?) quale avrebbe potuto fare il Supercontrollore nel muoversi.

«Sapete perché Wainwright e quelli che la pensano come lui hanno paura di me?» disse Karellen. La sua voce era triste, ora, come il suono in sordina di un grande organo che moduli le note dall'alto di una navata di cattedrale. «Troverete uomini come lui in tutte le religioni del mondo. Sanno che noi rappresentiamo la ragione e la scienza, e per quanta fiducia possano avere nella loro fede, temono che finiremmo per rovesciare i loro dei. Non necessariamente con un atto deliberato, ma in modo più sottile. La scienza può distruggere la religione ignorandone l'esistenza, o dichiarandone false le basi. Nessuno mai ha potuto dimostrare, a quanto ne so, la non esistenza di Zeus o di Thor... ma queste divinità hanno pochi adoratori oggi. I vari Wainwright temono inoltre che noi si conosca la verità sulle origini delle loro fedi. Da quanto tempo, si domandano, noi stiamo osservando l'umanità? Abbiamo visto quando Maometto dette inizio all'Egira, quando Mosè impartì le leggi agli Ebrei? Sappiamo tutto ciò che c'è di falso nei miti ai quali essi credono?»

«E lo sapete?» domandò Stormgren, più che altro a se stesso.

«Questa, Rikki, è la paura che li tormenta, anche se non lo ammetteranno mai apertamente. Credetemi, non ci dà alcun piacere distruggere le fedi degli uomini, ma non tutte le religioni del mondo possono essere ognuna quella vera, e loro lo sanno. Prima o poi, l'uomo dovrà sapere la verità, ma quel momento non è ancora venuto. In quanto al nostro segreto che, come voi giustamente dite, aggrava i nostri problemi, rivelarvelo non dipende da noi. La necessità di mantenere il mistero dispiace a me quanto a voi; ma esistono motivi molto validi. Tuttavia, tenterò di ottenere dai miei... superiori... una dichiarazione che possa soddisfarvi e forse placare la Lega della Libertà. E ora, se non vi dispiace, vogliamo ritornare al nostro programma di lavoro?»

 

«Allora?» chiese Van Ryberg ansiosamente. «Avete avuto fortuna?»

«Non lo so» rispose Stormgren, gettando sulla scrivania le cartelle delle varie pratiche e lasciandosi cadere nella sua poltrona. «Karellen consulterà i suoi superiori, quali o qualunque cosa siano. Ma non ha fatto promesse.»

«Sentite» disse Pieter a un tratto «ho pensato una cosa. Che motivo abbiamo di credere che ci sia qualcuno dietro Karellen? E se tutti i Superni, come li abbiamo chiamati, fossero qui sulla Terra, a bordo delle loro astronavi? Può darsi che non abbiano un loro mondo dove andare e non ce lo vogliano dire.»

«La teoria è ingegnosa» sorrise Stormgren «ma mi sembra che faccia a pugni col poco che so, o che credo di sapere, su Karellen.»

«E sarebbe, questo poco?»

«Vedete, spesso Karellen parla della sua posizione qui come di un incarico temporaneo, che gli impedisce di dedicarsi al suo vero lavoro che, secondo me, è una forma di matematica superiore. Una volta gli ho citato la massima di Acton sul potere che corrompe in modo assoluto. Volevo vedere la sua reazione; se ne uscì in una delle sue risate cavernose, e disse: "Non c'è pericolo che possa accadere una cosa del genere a me. Innanzitutto, prima avrò finito il mio lavoro con la Terra, più presto potrò tornare al mio mondo, a parecchi anni luce da qui. E poi, non ho poteri assoluti, in nessun modo. Io sono semplicemente... un supercontrollore". Naturalmente, può avermi detto così per sviarmi. Non potrò mai saperlo con certezza.»

«È immortale, vero?»

«Sì, almeno in rapporto ai limiti della vita umana. Ma c'è qualcosa nel futuro che lui sembra temere, e che io non riesco a immaginare che cosa sia. Ecco. È tutto quello che so di lui.»

«Non è certo conclusivo! La mia teoria è che la sua piccola flotta si è smarrita nello spazio e ora sta cercando una nuova patria. E lui non vuole farci sapere in quanti sono. Forse tutte le altre astronavi sono automatiche e non hanno equipaggio a bordo. In questo caso, sarebbero soltanto una imponente facciata.»

«Leggete troppi romanzi di fantascienza» disse Stormgren.

Van Ryberg sorrise, un po' forzatamente.

«La famosa "Invasione dallo spazio" non è avvenuta come ci si aspettava, eh? Certo però, la mia teoria spiegherebbe il perché Karellen non si è mai mostrato: non vuole che si sappia che i Superni in realtà non sono più tali.»

Stormgren scosse la testa, divertito.

«La vostra spiegazione, come al solito, è troppo ingegnosa per essere vera. Sebbene noi possiamo solo dedurne l'esistenza, deve esservi una grande civiltà dietro il Supercontrollore, una civiltà, tra l'altro, che conosce l'uomo da moltissimo tempo. Lo stesso Karellen deve averci studiato per secoli. Pensate solo alla sua padronanza dell'inglese! Ha insegnato a me a parlarlo idiomaticamente!»

«Avete mai scoperto qualcosa che egli non sappia?»

«Oh, sì, molto spesso. Ma si tratta di cose banali. La sua memoria è assolutamente perfetta, ma ci sono cose che non si è preso il disturbo di imparare. Per esempio, l'inglese è la sola lingua che Karellen sappia alla perfezione, sebbene in questi ultimi due anni abbia imparato abbastanza bene il finnico per potermi prendere in giro. E il finnico non è lingua che s'impari in quattro e quattr'otto. È capace di citarmi lunghi squarci del "Kalevala", mentre io devo ammettere, con vergogna, di conoscerne appena qualche verso. Sa poi la biografia di tutti gli statisti viventi, e talvolta riconosco le fonti a cui ha attinto. La sua conoscenza della storia e delle scienze è illimitata: anche voi non ignorate quanto abbiamo già imparato da lui. Prese a una a una, le sue doti intellettuali non mi sembrano molto superiori alle capacità dell'intelletto umano. Nessun uomo, però, saprebbe fare tutto quello che lui fa.»

«È più o meno quanto avevo pensato anch'io» convenne Van Ryberg. «Potremmo discutere su Karellen in eterno, e alla fine arriveremmo sempre alla stessa domanda: perché non si fa vedere in faccia? Fino a quando non si mostrerà, io continuerò a formulare teorie, e la Lega della Libertà continuerà a lanciare i suoi fulmini.» Alzò lo sguardo al soffitto, con espressione ribelle. «Spero proprio, signor Supercontrollore, che in una notte buia un cronista salga con un razzo fino alla tua grande astronave e vi penetri con una macchina fotografica. Che colpo sensazionale, sarebbe!»

Se Karellen aveva sentito, non dette però alcun segno. Ma non lo faceva mai.

 

Nel primo anno della loro comparsa, l'arrivo dei Superni aveva influito meno sull'andamento della vita umana di quanto ci si sarebbe aspettato. La loro ombra era ovunque, ma era un'ombra discreta. Da quasi tutte le grandi città della Terra si vedeva una delle immense astronavi d'argento scintillare allo zenith, ma dopo un po' la loro presenza divenne qualcosa di scontato, come il sole di giorno, o la luna di notte, o le nuvole. La maggior parte degli esseri umani si rendeva conto solo in modo vago che il tenore di vita sempre più elevato era opera dei Superni.

Ma quando si soffermavano a pensarci, il che non accadeva spesso, si accorgevano che quelle astronavi silenti avevano portato la pace a tutto il mondo per la prima volta nella storia, e allora provavano gratitudine.

Ma erano benefici poco spettacolari, che venivano accettati e subito dimenticati. I Superni rimanevano distanti e non si mostravano agli uomini. Karellen imponeva rispetto e ammirazione, ma non avrebbe suscitato un sentimento più profondo, finché avesse mantenuto il suo atteggiamento attuale. Era facile non sentire rancore contro quelle specie di divinità che parlavano all'uomo solo sui circuiti delle radio-telescriventi nella Sede delle Nazioni Unite. Il tenore dei colloqui tra Karellen e Stormgren non veniva mai divulgato, e più d'una volta lo stesso Stormgren s'era chiesto perché il Supercontrollore considerasse necessari quegli incontri. Forse sentiva la necessità di contatti diretti con almeno un essere umano; o forse aveva capito che Stormgren aveva bisogno di quella forma di appoggio personale. Se era questa la spiegazione, il Segretario Generale gliene era riconoscente: non gli importava nemmeno che la Lega della Libertà lo definisse con disprezzo "il tirapiedi di Karellen".

I Superni non avevano mai svolto trattative o avuto rapporti con singoli Stati o governi: avevano preso l'Organizzazione delle Nazioni Unite come l'avevano trovata, le avevano dato istruzioni per l'impianto delle stazioni radio necessarie e avevano impartito i loro ordini tramite il Segretario Generale.

In innumerevoli occasioni e con interventi lunghissimi, il delegato sovietico aveva fatto notare che questo procedimento era anticostituzionale, ma Karellen non se ne era mai preoccupato.

Era sbalorditivo che tanti abusi, follie, perversità fossero finiti grazie a quei messaggi che scendevano dal cielo. Con l'arrivo dei Superni, le nazioni avevano capito di non dover più temere l'una dall'altra e avevano indovinato, ancor prima che ne venisse fatto l'esperimento, che le loro armi sarebbero state impotenti contro una civiltà che sapeva gettare ponti fra le stelle. Così, di colpo, il più grande ostacolo alla felicità del genere umano era stato rimosso.

I Superni sembravano indifferenti alle diverse forme di governo, sempre che non fossero né dittatoriali né corrotte. La Terra continuava ad avere democrazie e monarchie, comunismo e capitalismo, fonte, questa, di grande sorpresa per molte anime semplici convinte che il loro fosse il solo sistema di vita possibile. Altri credevano che Karellen attendesse soltanto il momento giusto per dar vita a un sistema che avrebbe spazzato via ogni altra forma di convivenza sociale, e che per questo motivo non si era preso la briga di riforme politiche secondarie. Ma come ogni altra supposizione riguardo ai Superni anche questa era solo una congettura senza basi. Nessuno conosceva il loro vero scopo e nessuno sapeva verso quale futuro stessero spingendo il gregge del genere umano.

 

2

 

Era un po' di tempo che Stormgren dormiva male, strano, considerato che tra poco sarebbero finite per sempre le preoccupazioni inerenti alla sua carica. Serviva il genere umano da quarant'anni e i Superni da cinque, ed erano ben pochi gli uomini che, volgendosi come lui a guardare indietro, vedessero appagate tante ambizioni. Forse era proprio questo il guaio: negli anni, pochi o tanti, che gli restavano da vivere, non avrebbe avuto altri scopi da raggiungere che gli servissero da sprone. Da quando Martha era morta e i figli si erano formati la propria famiglia, i suoi legami col mondo si erano sempre più allentati. Forse perché aveva cominciato lui stesso a identificarsi con i Superni, staccandosi in tal modo gradatamente dall'umanità.

Quella era un'altra notte agitata in cui il suo cervello continuava a girare come una ruota impazzita.

Visto che non riusciva a prendere sonno, si alzò, infilò la vestaglia e uscì sul terrazzo del modesto appartamento. Tra i suoi diretti subalterni non ce n'era uno che non abitasse in un appartamento più signorile, ma per Stormgren quello andava benissimo. Il Segretario Generale d'altronde aveva raggiunto una posizione per cui né le proprietà private né le cerimonie ufficiali potevano aggiungere qualcosa alla sua statura.

La notte era calda, quasi afosa, ma il cielo era limpido e la luna brillava bassa a sud-ovest. A dieci chilometri, le luci di New York segnavano l'orizzonte simili a un'alba pietrificatasi nell'attimo della sua comparsa.

Stormgren alzò lo sguardo sopra la metropoli addormentata, scalando ancora una volta le altitudini che lui solo, di tutti gli esseri umani, aveva affrontato. Per lontana che fosse, riusciva a distinguere lo scafo della nave di Karellen scintillante ai raggi della luna. Si chiese che cosa facesse in quel momento il Supercontrollore, dato che non credeva che i Superni dormissero.

Altissima, una meteora trafisse la volta del cielo come una lancia infuocata. La scia luminosa indugiò per qualche istante sempre più fioca sul manto nero della notte e infine si spense lentamente, lasciando solo le stelle. L'analogia nacque di colpo nella sua mente: fra cento anni, Karellen avrebbe ancora guidato il genere umano verso la meta che lui solo conosceva; ma fra quattro mesi un altro sarebbe stato Segretario Generale. Cosa che, di per sé, Stormgren era lungi dal rimpiangere, ma voleva dire che gli rimaneva poco tempo se sperava di scoprire che cosa si nascondesse dietro quello schermo spento.

Solo da qualche giorno aveva osato ammettere che il mistero dei Superni lo ossessionava. Fino a poco tempo prima, la sua fede in Karellen lo aveva salvato da ogni dubbio; ma ora le pretese della Lega della Libertà cominciavano a fare effetto anche su di lui. Era vero che la propaganda sull'asservimento dell'uomo era solo propaganda. Pochi ci credevano veramente o desideravano realmente tornare ai vecchi tempi. Gli uomini si erano abituati all'invisibile presenza di Karellen, ma cominciavano a diventare impazienti di sapere chi li guidava. E in realtà non si poteva dar loro torto.

Sebbene fosse di gran lunga la più importante, la Lega della Libertà era soltanto una delle organizzazioni che si opponevano a Karellen e di conseguenza a chi collaborava con i Superni. Ideologia e metodo di questi gruppi erano dei più svariati: alcuni basavano la loro opposizione su principi religiosi, mentre altri esprimevano soltanto un pensoso senso di inferiorità. Provavano, e a ragione, molto di quello che un indiano evoluto del secolo decimonono doveva aver sentito nei confronti del governatore britannico. Gli invasori avevano portato pace e prosperità alla Terra, ma chi poteva dire quale ne sarebbe stato il prezzo? La storia passata non era tranquillizzante al riguardo: anche i più pacifici contatti fra razze dal livello culturale diversissimo si erano spesso conclusi con l'annientamento della civiltà più arretrata. Le nazioni, esattamente come gli individui, potevano perdere il coraggio quando venivano chiamate a una sfida superiore alle loro forze. E la civiltà dei Superni, anche velata dal mistero, rappresentava la più grande sfida che fosse mai stata lanciata al genere umano.

Si udì il ticchettio della macchina che nella camera accanto batteva il notiziario trasmesso di ora in ora dalla "Central News". Stormgren entrò nella camera e si mise a sfogliare distrattamente gli ultimi fogli battuti. Sull'altro emisfero, la Lega della Libertà aveva ispirato un titolo non molto peregrino: L'UMANITÀ È FORSE DOMINATA DA MOSTRI? Dopo il titolo, la notizia: "In un discorso pronunciato oggi a un comizio, a Madras, il dottor C.V. Krishnan, Presidente della Sezione Orientale della Lega della Libertà, ha detto: 'La ragione della condotta dei Superni è molto semplice. La loro forma fisica è così diversa dalla nostra e repellente che essi non osano mostrarsi all'umanità. Sfido il Supercontrollore a smentire questa mia affermazione'."

Stormgren gettò via il foglio con disgusto. Ammesso che l'accusa rispondesse a verità che importanza poteva avere? L'idea non era affatto nuova, ma non l'aveva mai preoccupato. Non credeva all'esistenza di una forma biologica che, per quanto insolita, lui non potesse accettare e forse trovare perfino bella. Era la mente, non il corpo, che in ultima analisi aveva importanza. Se almeno avesse potuto convincere Karellen di questo, forse i Superni avrebbero cambiato linea di condotta. Comunque fosse, non potevano essere creature ripugnanti come i disegni di fantasia che avevano riempito i giornali subito dopo la loro comparsa nel cielo della Terra. Eppure Stormgren sapeva che non soltanto per rispetto e generosità verso il suo successore lui era tanto ansioso di vedere la fine di quella storia.

Era abbastanza onesto da ammettere che il motivo principale era semplice, umanissima curiosità. Se era abituato alla personalità di Karellen, ora non avrebbe più avuto pace finché non avesse scoperto com'era fatto fisicamente.

Il mattino seguente, Pieter van Ryberg fu sorpreso e un po' sconcertato di non vedere arrivare Stormgren alla solita ora. Il Segretario Generale andava spesso in un posto o nell'altro prima di raggiungere l'ufficio, però, quando lo faceva, lo lasciava sempre detto. Quel mattino, per peggiorare le cose, arrivarono parecchi messaggi urgenti per Stormgren. Van Ryberg telefonò in sei o sette dipartimenti cercando di rintracciarlo, poi, seccato, si arrese.

A mezzogiorno, cominciò veramente a preoccuparsi e mandò una macchina a casa di Stormgren. Dieci minuti più tardi, l'urlo della sirena di un'auto della polizia che percorreva velocemente la Roosevelt Drive lo fece sussultare. Le agenzie di stampa erano evidentemente in buoni rapporti con i poliziotti di quell'autopattuglia perché, mentre ancora Van Ryberg stava guardando l'auto dalla finestra, la radio già annunciava al mondo la notizia che lui non era più semplicemente il Vice Segretario, ma il facente funzione di Segretario Generale delle Nazioni Unite.

Se Van Ryberg avesse avuto meno guai sulle spalle, avrebbe trovato interessante studiare le reazioni della stampa alla scomparsa di Stormgren. In quegli ultimi mesi, i giornali del mondo s'erano nettamente divisi in due fazioni. La stampa occidentale, in complesso, approvava il progetto di Karellen: rendere gli uomini cittadini del mondo. I Paesi orientali, d'altra parte, stavano vivendo violente crisi di orgoglio nazionale e pensavano di essere stati derubati dei loro vantaggi. Le critiche contro i Superni erano generali e violente, in questi Paesi. Dopo un periodo iniziale di estrema prudenza, la stampa si era accorta di potersi scagliare contro Karellen come e quanto voleva perché tanto non sarebbe successo niente. Ora stava superando se stessa.

In massima parte, gli attacchi, anche se verbosissimi, non erano la voce della massa popolare. Lungo quelle frontiere che stavano per scomparire per sempre, le guardie confinarie erano state raddoppiate, ma ogni uomo di sentinella guardava gli altri con un'amicizia ancora inespressa. Politici e militari potevano andare su tutte le furie, ma i milioni di uomini che aspettavano in silenzio avevano la sensazione precisa che finalmente un lungo e cruento capitolo della storia umana stava per concludersi.

E ora Stromgren era scomparso. E nessuno poteva dire dove. Il tumulto si placò di colpo, appena il mondo si rese conto di aver perduto il solo uomo mediante il quale i Superni, per chi sa quali loro strani motivi, parlavano alla Terra. Stampa e radio parvero colti da paralisi, ma nel silenzio si poteva sentire alta la voce della Lega della Libertà ansiosa di proclamare la sua innocenza.

 

Tutto era buio quando Stormgren si svegliò. Per un istante, intorpidito dal sonno, non ci fece caso. Poi, tornato perfettamente lucido, si levò a sedere di scatto e cercò l'interruttore accanto al letto.

Nel buio, la sua mano sfiorò una parete di pietra, fredda al tatto. Stormgren si sentì gelare corpo e cervello paralizzati dall'inatteso. Quindi, non credendo ai suoi sensi, si mise in ginocchio sul letto e cominciò a esplorare con la punta delle dita la parete così penosamente sconosciuta.

Era in quella posizione da qualche istante, quando udì uno scatto e tutta una sensazione di tenebra scivolò di lato. Stormgren vide la sagoma d'un uomo stagliarsi su uno sfondo vagamente luminoso. Poi l'apertura si richiuse e tornò il buio. Tutto era avvenuto con tale rapidità che lui non aveva avuto il tempo di vedere niente della camera in cui si trovava.

Un istante più tardi, fu abbagliato dalla luce di una potente torcia elettrica. Il raggio indugiò sulla sua faccia per qualche secondo, quindi scese a illuminare il letto: un materasso sorretto da nude tavole, come poté vedere adesso.

Dalle tenebre uscì una voce cortese, che disse in inglese perfetto, ma con un accento che Stormgren non poté identificare subito: «Bene, signor Segretario... lieto di vedervi sveglio. Mi auguro che vi sentiate del tutto a posto.»

Qualcosa nell'ultima frase attirò l'attenzione di Stormgren e gli fece morire sulle labbra le domande che, furibondo, stava per fare. Guardò nel buio verso la voce, e disse, calmo: «Quanto tempo sono rimasto fuori conoscenza?»

L'altro rise.

«Alcuni giorni. Ci avevano garantito che non ci sarebbero stati postumi. Sono lieto di constatare che è vero.»

Un po' per guadagnare tempo, un po' per saggiare le proprie reazioni, Stormgren mise le gambe giù dal letto.

Indossava ancora il pigiama, stazzonato da far pietà e diventato incredibilmente sporco. Appena si mosse, ebbe un capogiro, non tale da preoccuparlo ma sufficiente a rivelargli che l'avevano drogato.

Si voltò verso la luce.

«Dove sono?» chiese seccamente. «C'entra per caso Wainwright in questa storia?»

«Andiamo, non vi agitate» rispose la figura in ombra. «Non stiamo a parlare di questo, adesso. Immagino che abbiate fame. Vestitevi e venite a mangiare qualcosa.»

Il cono di luce si mosse per la camera, e per la prima volta Stormgren ebbe un'idea delle sue dimensioni. Non si poteva nemmeno definirla una camera, perché le pareti erano di roccia, levigata alla meglio. Doveva essere nel sottosuolo, forse a grande profondità e, se era rimasto svenuto per parecchi giorni, in chi sa quale regione del mondo.

La luce della torcia illuminò gli indumenti disposti alla meglio sopra una cassa da imballaggio.

«Mi auguro che vadano bene» disse la voce nell'ombra. «Quello della lavatura e stiratura è un grosso problema, qui, perciò abbiamo preso un paio dei vostri vestiti e una mezza dozzina di camicie.»

«Molto gentile da parte vostra» disse Stormgren senza ironia.

«Non sappiamo come scusarci per la mancanza di mobili e di luce elettrica. Questo posto offre molti vantaggi, ma purtroppo manca di comodità.»

«Quali vantaggi?» volle sapere Stormgren, mentre s'infilava una camicia. Il contatto familiare della stoffa fu stranamente rassicurante.

«Be'... vantaggi» disse la voce. «A proposito, giacché dovremo con ogni probabilità passare parecchio tempo assieme farete bene a chiamarmi Joe.»

«Nonostante la vostra nazionalità... siete polacco, non è vero?» ribatté Stormgren «credo di saper pronunciare il vostro nome vero: non sarà certo più difficile di certi nomi finnici.»

Ci fu una breve pausa, e la luce vacillò per un secondo. «Avrei dovuto aspettarmelo» disse Joe in tono rassegnato. «Dovete avere una gran pratica di queste cose.»

«È un passatempo utile per un uomo nella mia posizione. A occhio e croce direi che siete stato allevato negli Stati Uniti, ma non avete lasciato la Polonia prima di...»

«Credo che possa bastare» lo interruppe Joe in tono fermo. «Vedo che avete finito di vestirvi... perciò, se volete...»

La porta si aprì mentre Stormgren vi si avvicinava, lievemente sollevato dalla sua piccola vittoria. Joe si scostò per lasciarlo passare, e Stormgren si chiese se il suo carceriere fosse armato. Ma lo era quasi sicuramente. Comunque, lì attorno dovevano esserci altri della banda.

Il corridoio era scarsamente illuminato da lampade a olio sistemate a lunghi intervalli, e per la prima volta Stormgren poté vedere Joe bene in faccia. Era sulla cinquantina e doveva pesare almeno cento chili. Tutto in lui era sproporzionatamente massiccio, smisurato, dalla divisa mimetizzata che poteva provenire da una mezza dozzina di eserciti, all'anello enorme, col sigillo, all'anulare della sinistra. Un uomo di quelle proporzioni probabilmente non aveva bisogno di portare la rivoltella. Non doveva essere difficile identificarlo, pensò Stormgren, qualora fosse uscito da quel sotterraneo. Si sentì depresso, però, all'idea che anche Joe doveva esserne perfettamente consapevole.

Le muraglie intorno, anche se qua e là ricoperte di intonaco, erano soprattutto roccia viva. Evidentemente si trovavano in qualche miniera abbandonata, un posto ideale come prigione.

Fino a quel momento, Stormgren non si era molto preoccupato per la sua sorte. Aveva pensato che, qualunque cosa fosse accaduta, i Superni lo avrebbero trovato e salvato grazie alle loro immense risorse. Ma adesso non ne era più tanto sicuro. Era scomparso ormai da parecchi giorni e non era successo niente. Doveva esserci un limite anche al potere di Karellen, e se lui ora si trovava sepolto nel sottosuolo in una lontana parte del mondo, forse nemmeno la scienza dei Superni poteva rintracciarlo.

Due altri uomini erano seduti a tavola, in un locale spoglio, scarsamente illuminato. Quando Stormgren entrò, Io guardarono con interesse e addirittura con rispetto. Uno di loro spinse un piatto di panini imbottiti verso il Segretario che accettò con avidità. Per quanto affamato, avrebbe preferito un pranzo meno frugale, ma era chiaro che nemmeno i suoi carcerieri avevano mangiato meglio. Mentre mangiava, osservò con rapide occhiate i tre uomini che gli sedevano intorno. Joe era di gran lunga il tipo più interessante, e non soltanto per la corporatura. Era chiaro che gli altri erano dei subalterni, individui insignificanti, la cui origine Stormgren avrebbe identificato appena si fossero messi a parlare.

Comparve del vino versato in un bicchiere non esattamente pulito, e Stormgren lo bevve per buttar giù l'ultimo panino. Ora che aveva mangiato, sentiva di tenere in mano la situazione. Si rivolse al gigantesco polacco.

«Bene» disse, in tono affabile «ora forse sarete disposto a dirmi che cosa significa tutto questo e che cosa sperate di trarne.»

Joe tossicchiò.

«Innanzi tutto, vorrei mettere in chiaro una cosa» disse. «Wainwright non c'entra per niente e sarà rimasto sorpreso come gli altri.»

Stormgren si era quasi aspettato una risposta del genere, sebbene si chiedesse ora perché mai Joe confermasse i suoi sospetti. Già da tempo subodorava l'esistenza di un movimento estremista in seno, o ai margini, della Lega della Libertà.

«Per pura curiosità» disse «come avete fatto a rapirmi?»

Non si aspettava una risposta, perciò fu colto di sorpresa dalla prontezza e dalla disinvoltura con cui l'altro rispose.

«È filato tutto liscio come in un film giallo» disse Joe allegramente. «Non sapevamo se Karellen vigilasse su di voi, quindi siamo stati costretti a prendere delle precauzioni alquanto complicate. Innanzi tutto, vi abbiamo fatto perdere i sensi con un gas immesso nell'impianto dell'aria condizionata: è stato facile. Poi, vi abbiamo portato sulla macchina, cosa facilissima anche questa. Non è stato uno qualunque dei nostri a fare il lavoro. Abbiamo assunto... dei professionisti, per così dire. Karellen potrà anche catturarli, riteniamo anzi che lo farà, ma non arriverà oltre. Lasciata la vostra casa, la macchina ha imboccato un lungo tunnel ed è uscita in perfetto orario all'altra estremità. A bordo c'era ancora un uomo svenuto che assomigliava straordinariamente al Segretario Generale. Parecchio tempo dopo, un grosso autotreno carico di casse metalliche è emerso dalla parte opposta e si è diretto verso un certo campo d'aviazione, dove le casse sono state caricate su un aereo da trasporto in base a una normale e legalissima esigenza commerciale. Sono certo che i proprietari di quelle casse inorridirebbero nel sapere a cosa ci sono servite. Intanto l'automobile, finita la prima parte del suo lavoro, proseguiva nell'azione diversiva filando verso la frontiera canadese. Forse, quelli di Karellen l'hanno catturata, a quest'ora. Non lo so, e non me ne importa. Come vedete, e spero che apprezzerete la mia franchezza, tutto il nostro piano si basava su una sola cosa: sappiamo che Karellen può vedere e sentire tutto quello che succede sulla superficie della Terra, ma a meno che non ricorra alla magia, anziché alla scienza, non può vedere sotto di essa. Così non saprà del trasferimento avvenuto nel tunnel se non quando sarà troppo tardi. Naturalmente è stato lo stesso un rischio, ma avevamo studiato altre due o tre cosette per andare sul sicuro. Non vi dico, però, di cosa si tratta, perché potrebbero ancora tornarci utili e sarebbe un peccato sprecarle così per niente.»

Joe aveva raccontato tutta la storia con una tale soddisfazione che Stormgren frenò a stento un sorriso. Ma era preoccupato. Il piano era stato indubbiamente ingegnoso ed era possibilissimo che Karellen fosse caduto nella trappola. Stormgren dubitava perfino che i Superni lo sorvegliassero a scopo protettivo. E Joe non ne sapeva più di lui. Forse era per questo che aveva parlato con franchezza, per vedere le sue reazioni. Bene, gli conveniva mostrarsi fiducioso, qualunque fossero i suoi sentimenti.

«Dovete essere matti» disse «se v'illudete di ingannare Karellen e i Superni così facilmente. Comunque, che cosa sperate di ottenere?»

Joe gli offrì una sigaretta, che Stormgren rifiutò, quindi ne accese una per sé e si sedette sull'angolo del tavolo. Si udì uno scricchiolio di cattivo augurio, e lui si affrettò ad alzarsi.

«Il nostro scopo» cominciò «è evidente. Ci siamo accorti che le discussioni sono inutili e che bisognava ricorrere ad altre misure. Sono già esistiti movimenti clandestini prima di ora, e lo stesso Karellen, per grande che sia il suo potere, si accorgerà che siamo un osso duro. Noi ci battiamo per la nostra indipendenza. Non fraintendetemi. Non useremo la violenza, in un primo tempo, almeno, ma i Superni devono servirsi di agenti umani, e noi possiamo rendere il loro compito estremamente difficile.»

"Cominciando da me, suppongo" pensò Stormgren. Si chiese quanto, di tutta la storia, gli avesse raccontato il polacco. Quella gente credeva davvero che i sistemi da gangster avrebbero fatto vacillare Karellen? D'altro canto, però, non si poteva negare che un ben organizzato movimento di resistenza poteva rendere la vita difficile. Joe aveva messo il dito sul solo punto debole del dominio dei Superni. Tutti i loro ordini erano trasmessi mediante agenti umani: se questi fossero stati indotti dal terrore a disobbedire, l'intero sistema sarebbe potuto crollare. Non era che una vaga possibilità, tuttavia, e Stormgren non dubitava che Karellen avrebbe trovato la soluzione.

«E con me, che cosa contate di fare?» domandò Stormgren alla fine delle sue riflessioni. «Sono un ostaggio o cosa?»

«Non preoccupatevi. Vigileremo su di voi e vi proteggeremo. Aspettiamo delle visite, nei prossimi giorni, e nell'attesa faremo del nostro meglio per intrattenervi.» Aggiunse alcune parole nella sua lingua, e uno dei suoi accoliti fece saltar fuori un mazzo di carte nuove fiammanti. «Ce le siamo procurate apposta per voi» riprese. «Ho letto su un giornale, giorni fa, che siete un eccellente giocatore di poker.» La sua voce si fece d'un tratto grave. «Spero che il vostro portafoglio sia ben rifornito» disse ansiosamente. «Non abbiamo pensato ad accertarcene. Capite bene che, data la situazione, non possiamo accettare assegni.»

Sconcertato, Stormgren fissò con gli occhi sbarrati, senza parole, i suoi carcerieri. Poi, afferrato appieno l'umorismo della situazione, si sentì sollevato di colpo da tutte le preoccupazioni e gli impegni della sua carica. Da quel momento tutto ricadeva sulle spalle di Van Ryberg, e qualunque cosa succedesse, lui non poteva farci niente... E quegli straordinari criminali erano ansiosi di giocare a poker con lui.

 

Non c'era dubbio, pensò Van Ryberg di malumore, che Wainwright dicesse la verità. Forse aveva dei sospetti, ma non sapeva chi avesse rapito il Segretario Generale e non approvava il rapimento. Van Ryberg aveva una mezza convinzione che gli estremisti della Lega della Libertà avessero esercitato pressioni su Wainwright perché adottasse una politica più attiva e, alla fine, avessero preso in mano le redini dell'organizzazione.

Il rapimento era stato organizzato alla perfezione, di questo non c'era dubbio: Stormgren poteva essere nascosto in qualunque angolo della Terra, e c'erano poche speranze di poterlo scovare. Eppure bisognava fare qualcosa al più presto, pensò Van Ryberg. Nonostante le battute di spirito, provava per Karellen una specie di timore riverenziale. L'idea di avvicinare il Supercontrollore direttamente lo sgomentava, ma non c'era alternativa.

I servizi di comunicazione occupavano tutto l'ultimo piano del grosso palazzo. File e file di macchine e telescriventi, alcune silenziose, altre che ticchettavano freneticamente, si allungavano in distanza. Dalle macchine fluivano senza posa elenchi di cifre, risultati di censimenti, dati statistici, tutto il materiale indispensabile al sistema economico di un mondo. E in un punto dell'astronave di Karellen doveva esserci un duplicato di quella sala immensa. Con un brivido, Van Ryberg si domandò com'erano le figure che si muovevano tra quelle macchine per raccogliere i messaggi che la Terra mandava ai Superni.

Van Ryberg entrò nel piccolo studio privato dove solo Stormgren aveva diritto a entrare. Ne aveva fatto forzare la serratura, e il capo dei servizi di comunicazione lo stava aspettando là dentro.

«È una comune telescrivente, con la normale tastiera da macchina per scrivere» disse il funzionario. «C'è anche un trasmettitore di immagini, qualora voleste inviare disegni o diagrammi, ma avete detto che questo non vi serviva...»

Van Ryberg approvò con un cenno distratto. «Non mi serve altro, grazie» disse. «Non credo che mi fermerò molto. Quando sarò uscito, fate richiudere e poi consegnatemi tutte le chiavi.»

Attese che il funzionario fosse uscito, poi si sedette stancamente davanti alla macchina. Veniva usata molto di rado, dato che quasi tutte le transazioni fra Stormgren e Karellen erano sbrigate durante i loro incontri settimanali. Trattandosi di un mezzo per comunicazioni d'emergenza, Van Ryberg si aspettava una risposta entro brevissimo tempo.

Dopo un attimo d'esitazione, cominciò a battere il messaggio con dita inesperte. La macchina brontolava sommessa, e le parole apparivano scintillanti per qualche secondo sullo schermo nero. Infine, Van Ryberg si appoggiò allo schienale della sedia e attese la risposta.

Non era passato un minuto, che la macchina riprese a vibrare. Era proprio vero: il Supercontrollore non dormiva mai.

Il messaggio fu breve e poco consolante: MANCHIAMO INFORMAZIONI. LASCIAMO RICERCHE INTERAMENTE VOSTRA DISCREZIONE. K.

Con amarezza, e senza provare la minima soddisfazione, Van Ryberg si rese conto della gravità dei compiti che lo sovrastavano.

 

Negli ultimi tre giorni, Stormgren aveva studiato attentamente i suoi rapitori. Joe era il solo di qualche rilievo: gli altri erano nullità, il ciarpame che sempre si raccoglie ai margini d'ogni movimento clandestino. Gli ideali della Lega della Libertà non significavano niente per loro, preoccupati di un'unica cosa: guadagnarsi da vivere col minimo di fatica.

Joe era un individuo infinitamente più complesso, sebbene talvolta facesse pensare a un bambino di dimensioni eccezionali. Le loro interminabili partite di poker erano contraddistinte da violente discussioni politiche, e Stormgren non ci mise molto a capire che il massiccio polacco non aveva mai riflettuto seriamente sulla causa per cui si batteva. Emozione ed eccessivo spirito conservatore annebbiavano ogni suo giudizio. La lunga lotta per l'indipendenza sostenuta dal suo Paese lo aveva completamente condizionato, e lui viveva ancora in quegli anni ormai passati. Era un rudere pittoresco, uno di quegli uomini che non sanno adattarsi a un sistema ordinato di vita. Il giorno che i tipi come lui dovessero scomparire, ammesso che sia possibile, il mondo sarà forse un posto più tranquillo, ma sicuramente meno interessante.

Per quanto riguardava Stormgren, pareva proprio che Karellen non fosse riuscito a localizzarlo. Il Segretario Generale aveva cercato di bluffare, ma i suoi guardiani non si erano lasciati convincere. Era pronto a scommettere che l'avevano tenuto lì per vedere se Karellen sarebbe intervenuto, che adesso, visto che non era successo niente, avrebbero attuato i loro piani.

Alcuni giorni più tardi, Joe gli annunciò visite. Non fu una sorpresa per Stormgren: da un paio di giorni i tre carcerieri erano agitati, e lui ne aveva dedotto che i capì del movimento, visto che tutto procedeva per il meglio, avevano deciso di venire finalmente a prelevarlo.

Erano già raccolti attorno alla tavola traballante, quando Joe con un cenno cortese lo invitò a entrare nella sala comune. Stormgren notò divertito che il suo custode ostentava un'enorme pistola, per la prima volta. I due accoliti erano scomparsi, e Joe sembrava intimidito. Stormgren capì subito che si trovava di fronte a uomini di ben maggiore levatura. Il gruppo di fronte a lui gli ricordò una fotografia vista una volta: Lenin e i suoi collaboratori ritratti nei primi giorni della rivoluzione russa. In quei sei uomini era evidente la stessa intelligenza, la stessa decisione ferrea, la stessa razionale freddezza dei capi russi. Joe e quelli come lui erano innocui: ma gli altri erano i veri cervelli che davano vita al movimento. Con un breve cenno di saluto, Stormgren si diresse verso la sola sedia libera, cercando di mostrarsi disinvolto e padrone di sé. Mentre si avvicinava, l'uomo anziano e robusto, seduto al lato più lontano della tavola, si protese in avanti e lo fissò con grigi occhi penetranti. Quegli occhi misero in tale disagio Stormgren che, contrariamente a ciò che aveva deciso di fare, parlò per primo.

«Immagino che siate venuti per porre le vostre condizioni. Quale sarebbe il mio riscatto?»

Osservò che in fondo alla stanza qualcuno stava stenografando le sue parole. Tutto aveva l'aria molto burocratica.

Il capo rispose con spiccato accento gallese.

«Potete anche metterla così, signor Segretario Generale. Ma noi vogliamo informazioni, non denaro.»

Era così, dunque, pensò Stormgren. Era prigioniero di guerra, e quello era il suo interrogatorio.

«Voi conoscete i nostri scopi» riprese l'altro, con la sua voce cantilenante. «Chiamateci un movimento di resistenza, se preferite. Siamo convinti che, prima o poi, la Terra dovrà battersi per la sua indipendenza, ma la lotta può essere condotta solo col sistema del sabotaggio e della disobbedienza civile. Vi abbiamo rapito, in parte per dimostrare a Karellen che facciamo sul serio e siamo ben organizzati, ma soprattutto perché voi siete un uomo ragionevole, signor Stormgren. Assicurateci la vostra collaborazione e sarete rimesso in libertà.»

«Che cosa volete sapere esattamente?» domandò Stormgren, cauto.

Quegli occhi straordinari sembravano frugargli fino in fondo al cervello. Erano occhi diversi da quanti ne avesse mai visti. La voce cantilenante riprese: «Sapete chi o che cosa sono realmente i Superni?»

Stormgren sorrise. «Credetemi» disse «sono desideroso quanto voi di scoprirlo.»

«Risponderete, dunque, alle nostre domande?»

Si udì un lieve sospiro di sollievo da parte di Joe, e un mormorio di attesa si diffuse per la saletta.

«Noi abbiamo un'idea generica» riprese l'altro «delle circostanze in cui incontrate Karellen. Ma sarà meglio che ci descriviate i vostri incontri senza omettere niente d'importante.»

Cosa, questa, abbastanza innocua, pensò Stormgren. L'aveva già fatto molte volte e avrebbe avuto l'apparenza di una collaborazione. Erano cervelli acuti quelli che aveva davanti a sé e chissà che non scoprissero qualcosa di nuovo.

I sei uomini avrebbero fatto tesoro di qualsiasi cosa lui avesse detto, e tra quello che Stormgren poteva dire non c'era assolutamente niente che potesse danneggiare in qualche modo Karellen. Si frugò in tasca e ne tolse una matita e una vecchia busta gualcita. Schizzando rapidamente un disegno, cominciò a parlare. «Saprete, naturalmente, che un piccolo ordigno volante, senza mezzi manifesti di propulsione, viene a prendermi a intervalli regolari per trasportarmi a bordo dell'astronave di Karellen. Esso penetra nel ventre della nave, e voi avete senza dubbio visto i film che sono stati ripresi sull'operazione. La porta si riapre - ammesso che si voglia proprio chiamarla porta - e io entro in una saletta dove ci sono un tavolo, una sedia e uno schermo televisivo. Più o meno è così.»

Spinse il disegno verso il vecchio gallese, ma gli strani occhi non si volsero al foglio. Erano sempre fissi sulla faccia di Stormgren e, mentre questi li guardava, parve che qualcosa mutasse nelle loro profondità. La stanza si era fatta a un tratto silenziosa, e Stormgren sentì alle sue spalle il respiro rauco di Joe.

Perplesso e seccato, il Segretario Generale si voltò a guardare e cominciò a capire. Confuso, appallottolò la busta, la lasciò cadere e ci mise sopra un piede.

Adesso sapeva perché quegli occhi grigi lo avevano colpito così bizzarramente. L'uomo seduto davanti a lui era cieco.

 

Van Ryberg non fece altri tentativi di mettersi in contatto con Karellen. La maggior parte del lavoro del suo dipartimento, il raggruppamento di dati statistici, lo spoglio della stampa mondiale e altre cose del genere, andava avanti automaticamente. A Parigi i legislatori stavano ancora discutendo sulla proposta Costituzione Mondiale, ma per il momento la cosa non lo riguardava. Mancavano due settimane al giorno fissato per sottoporre a Karellen la bozza della nuova Costituzione, e se non fosse stata pronta per il momento stabilito certamente Karellen avrebbe agito nel modo che riteneva opportuno.

E ancora nessuna notizia di Stormgren.

Van Ryberg stava dettando la corrispondenza, quando suonò il telefono collegato con la linea di emergenza. Sollevò il ricevitore e ascoltò con crescente sbalordimento, poi lo rimise giù di colpo e corse alla finestra aperta. Da lontano venivano grida di stupore e nella strada il traffico si stava bloccando.

Era vero: l'astronave di Karellen, immutato simbolo dei Superni per tutti quegli anni, non era più nel cielo. Van Ryberg scrutò in alto fin dove gli era possibile spingere lo sguardo e non la vide. Poi, di colpo, parve che facesse notte. L'immensa astronave calò da nord rasente ai grattacieli di New York oscurando tutto con la sua sagoma immensa, scura, vista così senza il riflesso del sole, come una nube temporalesca. Involontariamente Van Ryberg si ritrasse per sfuggire alla gigantesca ombra in corsa. Sapeva che le astronavi dei Superni erano di dimensioni gigantesche, incredibili, ma un conto era vederle alte nello spazio e un altro guardarle passare appena sopra la città, paurose come nubi cavalcate da demoni.

Nel buio dell'eclissi parziale, guardò l'astronave e la sua ombra allontanarsi e svanire a sud. Non sentì alcun rumore, nemmeno il sibilo dell'aria, e capì che, per quanto fosse sembrata tanto vicina, la nave spaziale era passata almeno a mille metri di quota. Poi il palazzo vibrò colpito dallo spostamento d'aria, e si sentì un rumore di vetri da una stanza la cui finestra si era spalancata sotto l'onda d'urto.

Nell'ufficio tutti i telefoni si misero a suonare, ma Van Ryberg non si mosse. Rimase lì, appoggiato allo stipite della finestra, lo sguardo fisso a sud, paralizzato da quella visione di potenza illimitata.

 

A Stormgren pareva di avere il cervello su due piani diversi contemporaneamente. Da una parte, cercava di sfidare l'uomo che lo aveva catturato, dall'altra sperava che esso potesse aiutarlo a scoprire il segreto di Karellen. Gioco pericoloso, ma che con la sua notevole sorpresa lo divertiva.

Il cieco gallese aveva condotto quasi tutto l'interrogatorio. Era affascinante vedere quell'agilissima mente tentare un varco dopo l'altro, valutando e respingendo tutte le storie che Stormgren stesso aveva abbandonato già da molto tempo. Alla fine si abbandonò contro la spalliera della sedia con un sospiro.

«Non si conclude niente» disse, in tono rassegnato. «Abbiamo bisogno di altri fatti, e questo significa azione, non discussioni.» Gli occhi ciechi parvero fissare pensosi Stormgren, e per qualche istante l'uomo batté nervosamente le dita sul tavolo: il primo segno d'incertezza che Stormgren notava in lui. Infine riprese. «Mi stupisce non poco, signor Segretario, che non abbiate fatto nessun sforzo per saperne di più sui Superni.»

«Che cosa proporreste, voi?» domandò Stormgren freddamente, cercando di nascondere il suo interesse. «Come vi ho detto, non c'è che una via d'uscita dal locale in cui si svolgono i miei colloqui con Karellen: quella che riporta direttamente sulla Terra.»

«Si potrebbero escogitare strumenti capaci di rivelarci qualche cosa» congetturò l'altro. «Non sono uno scienziato, ma si può vedere che cosa si potrebbe fare in merito. Se vi rendiamo la libertà, sareste disposto a collaborare a un piano del genere?»

«Una volta per tutte» disse Stormgren «lasciate che chiarisca bene la mia posizione. Karellen si adopera per la creazione di un mondo unito, e io non farò niente per aiutare i suoi nemici. Non so quali siano i suoi piani definitivi, ma credo fermamente che siano buoni.»

«Quali prove ne avete?»

«Tutte le sue azioni, fin dal primo istante in cui le astronavi sono apparse nel cielo del nostro pianeta. Vi sfido a citarmi una sola azione di Karellen che in ultima analisi non si sia rivelata benefica.» Stormgren fece una pausa, riandando col pensiero agli ultimi anni. Poi sorrise. «Come prova della... come chiamarla?... benevolenza dei Superni, basterebbe ricordare l'ordine in merito alle crudeltà contro gli animali emanato entro un mese dal loro arrivo. Qualsiasi dubbio avessi avuto su Karellen, quell'ordine lo fece svanire, anche se mi causò più noie di qualunque altra sua azione!»

Non era una esagerazione, pensò Stormgren. Quell'incidente straordinario era stato la prima rivelazione che i Superni non tolleravano la crudeltà. Dovendoli giudicare dalle loro azioni, bisognava dire che questa intolleranza e la passione per la giustizia e per l'ordine erano le loro prerogative dominanti.

Fu la sola volta che Karellen si fosse mostrato furioso. "Potete uccidervi l'un l'altro, se volete" aveva detto il messaggio "ciò riguarda voi e le vostre leggi. Ma se uccidete gli animali che dividono con voi il vostro pianeta, a meno che non sia per procurarvi cibo o per difesa personale, dovrete risponderne direttamente a me".

Nessuno aveva idea esattamente dei limiti entro cui l'ordinanza era valida, o che cosa avrebbe fatto Karellen per farla osservare. Ma non dovettero aspettare molto per saperlo.

La Plaza de Toros era gremita quando i toreri coi loro aiutanti avevano fatto l'ingresso nell'arena per il saluto pubblico. Tutto sembrava normale, il sole sfolgorava sui costumi tradizionali, la folla acclamava i suoi favoriti come aveva già fatto centinaia di volte. Pure, qua e là, delle facce si alzavano ansiose al cielo, verso la solitaria e superba sagoma argentea sospesa a cinquanta chilometri d'altezza su Madrid.

Poi i picadores presero posto, e il toro uscì sbuffando dal recinto. I cavalli, le froge dilatate dal terrore, si erano messi a fare evoluzioni nel sole, mentre i cavalieri li spronavano incontro al nemico. La prima lancia saettò e colpì. In quell'istante si udì un urlo quale mai era echeggiato sulla Terra.

Era l'urlo di dolore di diecimila persone tormentate dalla stessa ferita, diecimila esseri umani che, quando si furono ripresi, si ritrovarono del tutto illesi. Ma fu la fine della corrida, anzi, fu la fine di tutte le corride, perché la notizia si sparse rapidamente. Vale la pena di ricordare che gli spettatori erano rimasti così scossi che soltanto uno su dieci chiese la restituzione del denaro e che il giornale inglese "Daily Mirror" peggiorò la situazione proponendo che gli spagnoli adottassero il cricket come nuovo sport nazionale.

«Può darsi che abbiate ragione» rispose il vecchio gallese. «È probabile che i motivi dei Superni siano buoni... secondo i loro punti di vista che qualche volta possono coincidere con i nostri. Ma i Superni sono degli intrusi, noi non abbiamo mai chiesto loro di venire a sconvolgere il nostro mondo, distruggendo ideali... sì, ideali, e nazioni... per i quali generazioni di uomini avevano combattuto con lo scopo di difendere e di proteggere.»

«Io provengo da una piccola nazione che ha dovuto combattere per la sua libertà» ribatté Stormgren. «Eppure sono per Karellen. Lo si potrà ostacolare, potrete perfino ritardare il conseguimento dei suoi scopi, ma alla fine sarà lui a vincere. Sono convinto che siete in buona fede e posso capire il vostro timore che le tradizioni e la cultura di piccoli Stati vengano travolte dalla fondazione di uno Stato Mondiale, ma vi sbagliate: è inutile restare attaccati al passato. Ancora prima che i Superni arrivassero sulla Terra, lo stato sovrano era in agonia. Loro ne hanno accelerato la fine. Nessuno può salvarlo ora e nessuno dovrà tentare di farlo.»

Non ci fu risposta. L'uomo che gli sedeva davanti non si muoveva, non parlava. Stava immobile, con le labbra socchiuse, gli occhi veramente spenti, ora, veramente gli occhi di un cieco. Anche gli altri erano immobili, impietriti in pose tese, innaturali. Con un'esclamazione soffocata Stormgren si alzò e indietreggiò verso la porta. In quell'istante, bruscamente, qualcuno parlò.

«Simpatico discorso quello che avete fatto, Rikki, grazie! E ora, possiamo andare.»

Stormgren si girò di scatto a scrutare nell'ombra del corridoio. Vide galleggiare nell'aria, all'altezza d'uomo, una piccola sfera; la fonte senza dubbio della forza misteriosa che i Superni avevano liberato. Stormgren non ne era sicuro, ma gli pareva di sentire un debole ronzio simile a quello di uno sciame d'api in un sonnacchioso pomeriggio d'estate.

«Karellen! Dio sia lodato! Ma che cosa avete fatto?»

«Non vi preoccupate, stanno benissimo. Sono in uno stato assai simile alla paralisi, ma in realtà è qualcosa di più... si dice subdolo? Stanno vivendo migliaia di volte più lentamente del normale. Noi ce ne andremo, e loro non sapranno mai che cosa sia accaduto.»

«Resteranno così fino all'arrivo della polizia?»

«No. Ho un piano migliore: li lascio liberi.»

Stormgren provò un senso di sollievo. Lanciò un'ultima occhiata di commiato alla stanza e ai suoi occupanti impietriti. Joe stava ritto su un piede, fissando il vuoto con espressione stupita. Improvvisamente Stormgren scoppiò a ridere e si frugò in tasca.

«Grazie dell'ospitalità, Joe» disse. «Voglio lasciarvi un ricordo.» Fece passare tra le dita i vari foglietti finché non ebbe trovato quel che cercava. Quindi, su un pezzetto di carta abbastanza pulito, scrisse con grande attenzione. "Alla Banca di Manhattan - Pagate per me a Joe la somma di centotrentacinque dollari e cinquanta cents (135,50). - R. Stormgren".

Mentre deponeva il foglio sul tavolo davanti al polacco, udì la voce di Karellen chiedere: «Che cosa state facendo?»

«Noi Stormgren paghiamo sempre i nostri debiti. Gli altri due baravano, ma Joe giocava onestamente. Almeno, non l'ho mai sorpreso in flagrante.»

Si sentiva allegro e sollevato, di almeno quarant'anni più giovane, mentre si dirigeva verso la porta. La sfera di metallo sballonzolò da una parte per lasciarlo passare. Stormgren immaginò che fosse una qualche specie di robot, e la presenza della macchina spiegava come Karellen fosse riuscito a raggiungerlo attraverso gli sconosciuti corridoi scavati nello spesso strato di roccia che sovrastava il nascondiglio.

«Andate diritto per un centinaio di metri» disse la sfera, sempre con la voce di Karellen «poi voltate a sinistra e proseguite finché non avrete altre indicazioni.»

Stormgren si incamminò svelto, pur sapendo che non c'era nessuna necessità di correre. La sfera rimase a mezz'aria nel corridoio, probabilmente per coprire la sua fuga.

Un minuto più tardi, Stormgren si trovò davanti a una seconda sfera, che lo aspettava a una biforcazione del corridoio.

«Ora avete mezzo chilometro da percorrere» disse. «Piegate sempre a sinistra fin quando non ci ritroveremo.»

Incontrò sei sfere lungo il suo percorso verso l'aria aperta. Dapprima si disse che forse l'automa riusciva a superarlo, poi pensò che doveva esserci tutta una catena di sfere, così da formare un circuito completo nella profondità della miniera. All'ingresso, un gruppo di uomini di guardia formavano un insieme scultoreo di dubbio effetto sotto la sorveglianza di un'altra delle sfere onnipresenti. Sul fianco dell'altura, a pochi metri di distanza, stava in attesa la navicella a bordo della quale Stormgren aveva fatto tutte le sue ascensioni verso l'astronave di Karellen.

Per qualche secondo il Segretario Generale sbatté le palpebre, abbagliato dalla luce del sole. Poi vide le vecchie macchine e l'attrezzatura da miniera e oltre il macchinario, le rotaie in disuso che scendevano lungo il fianco del monte. A tre o quattro chilometri, una fitta foresta cingeva la base della montagna, e ancora più lontano Stormgren vide il luccichio dell'acqua di un grande lago. Immaginò di essere in qualche punto del Sud America ma non avrebbe saputo dire da cosa gli veniva questa impressione.

Mentre saliva nella piccola macchina volante, Stormgren ebbe un'ultima fuggevole visione dell'imbocco della miniera e degli uomini impietriti davanti all'ingresso. Quindi lo sportello si chiuse, sigillandosi ermeticamente alle sue spalle, e con un sospiro di sollievo lui si sedette sulla familiare poltroncina imbottita.

Per qualche istante attese di riprendere fiato, infine disse una sola parola, ma densa di significato.

«Allora?»

«Mi dispiace di non avervi potuto liberare prima. Ma avrete capito che era importante attendere che tutti i capi fossero riuniti.»

«Volete dire» balbettò Stormgren «che avete sempre saputo dov'ero? Se avessi...»

«Non siate tanto precipitoso» interruppe Karellen. «Almeno lasciate che finisca di spiegarvi.»

«D'accordo» disse Stormgren, cupo. «Vi ascolto.» Cominciava a sospettare di essere stato l'esca di una trappola molto complicata.

«Ho tenuto un... credo che si dica "rivelatore", puntato su di voi in questi ultimi tempi» cominciò Karellen. «Sebbene i vostri nuovi amici avessero ragione di credere che io non potevo seguire i vostri movimenti nel sottosuolo, vi ho comunque seguito fino alla miniera. Il passaggio dall'auto al camion sotto il tunnel è stata una trovata ingegnosa, ma quando la macchina non ha più risposto agli impulsi del rivelatore tutto è diventato chiaro, e in breve ho potuto ritrovarvi. Dopo, si è trattato soltanto di aspettare. Sapevo che, appena avessero avuto la certezza che avevo perso le vostre tracce, i capi sarebbero corsi alla miniera, così avrei potuto prenderli in trappola.»

«Ma se mi avete detto che li lasciate in libertà!»

«Fino a poco fa non potevo sapere quali fra i due miliardi e mezzo di abitanti del pianeta fossero i veri capi dell'organizzazione. Ora che sono stati identificati, posso rintracciarli in qualunque punto della Terra e, volendo, seguire ogni loro azione nei minimi particolari. Molto meglio che non chiuderli in una prigione. A ogni nuova mossa, tradiranno altri compagni. Sono praticamente neutralizzati, e lo sanno. La vostra scomparsa dalla miniera sarà del tutto inesplicabile per loro, perché avranno la sensazione di avervi visto scomparire sotto gli occhi.»

La vibrante risata ben nota echeggiò nella cabina.

«In un certo senso tutta questa storia è stata una buffonata, ma aveva un suo scopo molto serio. Non mi preoccupo semplicemente dei pochi uomini di questa organizzazione, devo anche pensare agli effetti che la notizia può avere sul morale degli altri gruppi esistenti in altre parti del mondo.»

Stormgren rimase in silenzio a lungo.

«Peccato che questo sia accaduto proprio nei miei ultimi giorni di carica» disse alla fine. «Ma d'ora in poi farò mettere una guardia alla mia casa. La prossima volta potrebbe essere rapito Pieter. Come se l'è cavata, a proposito?»

«L'ho osservato con la massima attenzione in quest'ultima settimana e ho deliberatamente evitato di dargli il minimo aiuto. In complesso ha lavorato bene, ma non è l'uomo adatto a prendere il vostro posto.»

«Meglio per lui. E, a proposito, avete avuto una risposta dai vostri superiori? Avete il permesso di rivelarvi a noi? Sono sicuro che questo è il più forte argomento a cui si attaccano i vostri nemici. Continuano a ripetere: "Non possiamo aver fiducia nei Superni finché non li vedremo in faccia".»

Karellen sospirò.

«No. Non ho avuto risposta. Ma so già quale sarà.»

Stormgren non insistette. Una volta, forse, l'avrebbe fatto, ma ora la prima vaga ombra di un piano si andava delineando nella sua mente. Le parole del gallese cieco gli risuonavano nel cervello. Sì, forse si potevano ideare strumenti...

Quello che aveva rifiutato di fare sotto costrizione, poteva tentarlo liberamente, di sua iniziativa.

 

3

 

Solo pochi giorni prima a Stormgren non sarebbe mai venuto in mente di prendere in seria considerazione quel progetto. Il suo ridicolo, melodrammatico rapimento, che a ripensarci gli sembrava un originale televisivo di terza serie, doveva avere molto a che fare col suo nuovo punto di vista. Era stata la prima volta in vita sua che Stormgren si era trovato a subire una violenza fisica, esperienza assai diversa dagli scontri verbali della sala delle conferenze. Doveva esserne rimasto contagiato, a meno che non stesse semplicemente entrando nella seconda infanzia prima del previsto!

Una forte componente era data dalla curiosità e dalla decisione di vendicarsi in qualche modo del tiro che gli avevano giocato. Era evidente che Karellen l'aveva usato come specchietto per le allodole e anche se l'aveva fatto a buon fine, lui non si sentiva di perdonare tranquillamente il Supercontrollore.

Pierre Duval non dimostrò sorpresa quando Stormgren entrò da lui senza farsi annunciare. Erano amici di vecchia data e non era insolito che il Segretario Generale facesse visita privatamente al capo del Dipartimento Scientifico. Anche Karellen non lo avrebbe trovato strano, se per caso lui, o qualcuno dei suoi, avesse puntato gli strumenti di sorveglianza su quella stanza.

Per qualche minuto i due uomini parlarono di lavoro e si scambiarono pettegolezzi politici, poi, un po' esitante, Stormgren venne al punto. Mentre il Segretario Generale parlava, il vecchio francese si abbandonò a poco a poco contro la spalliera della poltrona e le sue sopracciglia s'inarcarono, millimetro per millimetro, fin quasi a congiungersi con la radice dei capelli. Un paio di volte parve voler dire qualcosa, ma poi cambiò idea.

Quando Stormgren ebbe finito, lo scienziato si guardò intorno nervosamente.

«Non credi che ci stia ascoltando?» disse.

«Secondo me, non può farlo. Ha un rivelatore, come lo chiama lui, puntato su di me a scopo di protezione, ma non opera nel sottosuolo, ed è questa una delle ragioni per cui sono venuto a trovarti in questa tua tana. Qui le pareti sono schermate contro ogni tipo di radiazioni, no? Be', Karellen non è un mago. Certo sa dove sono, ma niente di più.»

«Spero che sia come dici. Indipendentemente da questo, non ci saranno guai quando scoprirà quello che vuoi fare? Perché lo scoprirà, stai tranquillo.»

«È un rischio che devo correre. E poi ci comprendiamo piuttosto bene.»

Il fisico si mise a giocherellare con la matita, gli occhi persi nel vuoto.

«Il problema è dei più interessanti. Mi piace» disse poi, semplicemente, e tuffata una mano in un cassetto ne tirò fuori un taccuino enorme, il più grande che Stormgren avesse mai visto.

«Bene» cominciò, scrivendo furiosamente chissà che cosa in una specie di sua stenografia personale. «Vediamo se ho tutti gli elementi necessari. Dimmi tutto ciò che puoi del locale dove tenete i vostri incontri. Non omettere nessun particolare, per banale che ti sembri.»

«Non c'è molto da descrivere. Ha le pareti di metallo, una superficie di circa quattro metri quadrati per quattro di altezza. Lo schermo è di circa un metro di lato, e c'è una piccola scrivania sotto lo schermo... ecco qua, sarà più chiaro se ti faccio uno schizzo.»

Con pochi tratti di penna, Stormgren schizzò una pianta del locale che conosceva tanto bene e passò il disegno a Duval. In quell'attimo ricordò con un brivido l'ultima volta che aveva fatto lo stesso gesto e si domandò che fine avessero fatto il gallese e i suoi compagni, e come avessero reagito alla sua scomparsa.

Duval studiò lo schizzo tormentandosi le labbra.

«È tutto quello che puoi darmi?»

«Già.»

Duval sbuffò, indignato.

«E l'illuminazione? Ve ne state lì al buio? E la ventilazione e il riscaldamento...»

Stormgren sorrise alla caratteristica sfuriata di Duval.

«L'intero soffitto è luminescente e a quanto ho potuto capire l'aria viene attraverso la griglia dell'altoparlante. Non so come avvenga il ricambio. Forse a intervalli il flusso si inverte, ma io non me ne sono accorto. Non c'è traccia d'impianto di riscaldamento, ma nel locale la temperatura è sempre normale.»

«Il che significa che il vapore acqueo si congela e viene così eliminato, ma non l'anidride carbonica.»

Stormgren tentò di ridere per la vecchia battuta scherzosa.

«Credo con questo di averti detto tutto» concluse. «Quanto alla macchina volante che mi trasporta su fino all'astronave, la cabina in cui entro è anonima come quella di un ascensore. Se non ci fossero la poltrona e il tavolo potrebbe proprio essere un ascensore.»

Seguirono alcuni minuti di silenzio, mentre lo scienziato disegnava complicati e microscopici ghirigori sul suo immenso taccuino. Guardandolo, Stormgren si chiese come mai un uomo dell'intelligenza di Duval, un'intelligenza assai più brillante della sua, non si fosse affermato maggiormente nel mondo scientifico. Ricordava l'ingegnoso e probabilmente ingiusto commento di un amico della delegazione americana: "Il francese è il miglior pensatore di second'ordine che esista". Duval era esattamente il tipo che suggeriva simili affermazioni.

A un tratto il francese alzò la testa e, puntandogli contro la matita, disse: «Che cosa ti fa credere, Rikki, che lo schermo visore di Karellen sia proprio uno schermo?»

«Ho sempre dato per scontato che lo fosse. È in tutto e per tutto simile a uno schermo di televisore. Del resto cos'altro potrebbe essere?»

«Quando affermi che sembra lo schermo di un televisore, vuoi dire che assomiglia a uno dei «nostri» schermi, vero?»

«Certo.»

«È proprio questo che mi insospettisce. Sono sicuro che i Superni non usano niente di così primitivo come un teleschermo vero e proprio. Probabilmente sanno come materializzare le immagini direttamente nello spazio. E poi, perché Karellen dovrebbe prendersi la briga di usare un sistema TV? La soluzione più semplice è sempre la migliore: non sembra anche a te molto più probabile che il tuo "schermo televisivo" sia una lastra di vetro polarizzato?»

Seccato con se stesso, Stormgren rimase zitto, a ricostruire nella memoria i passati incontri con Karellen. Fin dall'inizio non aveva mai messo in dubbio le affermazioni del Supercontrollore, questo era vero, però, ripensandoci, Karellen non gli aveva mai detto che si serviva del sistema televisivo. Era stato lui a darlo per scontato. Risultato di un capolavoro di inganno attuato psicologicamente e in cui era caduto in pieno. Sempre che la teoria di Duval fosse esatta. Doveva stare attento a non saltare di nuovo alle conclusioni, perché non era ancora stato dimostrato niente.

«Se è così, basterà che io sfondi quella lastra di vetro...»

Duval sospirò.

«Questi profani! E credi proprio che sia fatto di sostanze che tu possa mandare in frantumi senza l'aiuto di esplosivi? E anche ammesso che tu riuscissi nell'intento, credi che Karellen possa respirare la nostra stessa aria? Sai che bello per tutti e due se lui respirasse cloro?»

Stormgren si sentì ridicolo; ecco un'altra cosa che avrebbe dovuto pensare da solo.

«Insomma, che cosa mi consigli?» domandò, con una punta d'esasperazione.

«Bisogna che ci pensi: innanzitutto dobbiamo controllare l'esattezza della mia teoria" e, in caso positivo, scoprire di che cosa è fatto lo schermo. Affiderò le ricerche a un paio dei miei ragazzi. A proposito, immagino che tu abbia con te una cartella di pelle o qualcosa del genere quando vai dal Supercontrollore. È quella che hai adesso?»

«Sì.»

«Mi pare grande abbastanza. Sarà meglio non attirare l'attenzione sostituendola con un'altra, soprattutto se Karellen è abituato a vederla.»

«Insomma, che cosa devo fare? Nascondere nella cartella un apparecchio a raggi X?»

Il fisico sorrise.

«Non lo so ancora, ma escogiteremo qualcosa. Saprai cosa sarà fra una quindicina di giorni.» Rise, e aggiunse: «Sai che cosa mi ricorda tutto questo?»

«Sì» disse subito Stormgren «l'epoca in cui costruivi illegalmente apparecchi radio durante l'occupazione tedesca.»

Duval parve deluso. «Forse te l'avevo già raccontato... Ma c'è un'altra cosa che voglio dirti.»

«Sentiamo.»

«Se ti scoprono, ricordati che io non ho mai saputo per quale motivo mi hai chiesto l'apparecchio, o quello che sarà.»

«E hai il coraggio di dirmelo dopo tutto il chiasso che ti ho sentito fare una volta sulle responsabilità degli scienziati per le loro invenzioni? Pierre, mi vergogno di te!»

 

Stormgren depose il grosso dattiloscritto con un sospiro di sollievo.

«Grazie al cielo anche questo è sistemato, finalmente!» esclamò. «È strano pensare che in queste poche centinaia di pagine c'è il futuro del genere umano: lo Stato Mondiale. Non avrei mai creduto di vederlo realizzato!»

Mise il plico nella cartella appoggiata ritta sulla scrivania col retro a non più di dieci centimetri dallo scuro rettangolo dello schermo. Ogni tanto le sue dita si gingillavano con i fermagli, per una reazione nervosa seminconscia, ma non intendeva premere l'interruttore nascosto prima che il colloquio fosse finito.

«Avete detto di avere notizie per me» disse con malcelato interesse. «Si tratta forse...»

«Sì» disse Karellen. «Ho ricevuto una risposta qualche ora fa. Non credo che la Lega della Libertà e i suoi associati saranno molto soddisfatti, ma la decisione dovrebbe contribuire a ridurre lo scontento. Mi avete detto, spesso, che indipendentemente dal grado di differenza fisica tra noi e voi, la razza umana si avvezzerebbe presto alla nostra vista. Ciò rivela mancanza d'immaginazione da parte vostra. Sarebbe probabilmente vero nel vostro caso personale, ma dovete ricordare che il mondo non si è ancora evoluto ed è tuttora gravato da superstizioni e pregiudizi che ci vorrebbero decenni a sradicare. Ammetterete che ne sappiamo qualcosa di psicologia umana. Sappiamo con precisione che cosa accadrebbe se ci rivelassimo oggi al mondo. Non posso entrare in particolari, nemmeno con voi, per cui vi prego di accettare la mia analisi in piena fiducia. Possiamo tuttavia fare questa promessa che dovrebbe darvi qualche soddisfazione: fra cinquant'anni, vale a dire tra due generazioni, noi scenderemo dalle nostre astronavi, e l'umanità allora ci vedrà come siamo.»

Stormgren rimase a lungo in silenzio, assimilando le parole del Supercontrollore. Una volta se ne sarebbe sentito soddisfatto, ma ora... Era anzi confuso del suo parziale successo, e per un attimo la sua risoluzione vacillò. La verità sarebbe venuta a galla col passare del tempo: tutto il suo complotto era inutile e forse avventato. Se non desistette dal suo proposito, fu unicamente per l'egoistica ragione che di lì a cinquant'anni lui non ci sarebbe stato più.

Karellen doveva avere avvertito la sua indecisione, perché aggiunse: «Dolente se la mia risposta vi delude, ma per lo meno i problemi politici del prossimo futuro non saranno di vostra responsabilità. Forse continuate a pensare che i nostri timori siano infondati, ma, credetemi, abbiamo avuto prove convincenti del pericolo che si corre prendendo qualunque altra via.»

Stormgren si protese in avanti, respirando a fatica.

«Ma allora voi siete già stati visti dall'uomo!»

«Non ho detto questo» si affrettò a rispondere Karellen. «Il vostro mondo non è il solo pianeta di cui abbiamo preso il controllo.»

Ma Stormgren non era tipo da lasciarsi fuorviare tanto facilmente.

«Esistono molte leggende relative a visite che sarebbero state fatte alla Terra in passato, da altre forme di vita.»

«Lo so. Ho letto il rapporto dell'Istituto di Ricerche Storiche. Secondo quella relazione, la Terra parrebbe il crocicchio più frequentato di tutto l'universo!»

«Possono esserci state visite di cui voi non sapete niente» ribatté Stormgren, continuando speranzoso nella sua tattica aggirante. «Anche se l'eventualità di un fatto simile non sembra molto probabile, dato che voi ci state osservando da millenni.»

«Appunto» disse Karellen, nel tono meno incoraggiante possibile. E in quell'istante Stormgren si decise.

«Karellen» disse bruscamente «metterò per iscritto la vostra dichiarazione e ve la manderò per l'approvazione, ma mi riservo di continuare a tormentarvi e, qualora mi si offrisse l'occasione di scoprire il vostro segreto, non me lo lascerò sfuggire.»

«Lo so benissimo» rispose il Supercontrollore con una risata.

«E non ve la prendete?»

«No, metto solo il veto alle armi nucleari, ai gas tossici, o qualsiasi cosa che rischi di rovinare la nostra amicizia.»

Stormgren si chiese se Karellen non avesse intuito il suo piano. Sotto il tono scherzoso del Supercontrollore aveva sentito una nota di comprensione, forse - chi avrebbe potuto dirlo con certezza? - anche di incoraggiamento.

«Avete fatto bene a dirmelo» ribatté Stormgren col tono più tranquillo e indifferente che poté. Si alzò chiudendo la busta di pelle. Il suo pollice indugiò sul bottone.

«Preparo immediatamente il testo della dichiarazione» ripeté «e ve lo farò avere in giornata per telescrivente.»

Così dicendo, premette il bottone... e seppe che tutti i suoi timori non avevano avuto fondamento. I sensi di Karellen non erano più sviluppati di quelli umani. Il Supercontrollore non doveva avere scoperto niente, perché non ci fu nessun cambiamento nella sua voce, quando, salutato Stormgren, pronunciò le parole in codice che comandavano l'apertura della porta.

Pure Stormgren si sentiva come un taccheggiatore al momento di uscire da un grande magazzino quando passa sotto gli occhi del poliziotto di guardia, e trasse un sospiro di sollievo non appena la liscia parete si richiuse alle sue spalle.

 

«Ammetto che un paio delle mie teorie non hanno avuto successo» disse Van Ryberg «ma ditemi che cosa ve ne pare di questa.»

«Devo proprio?» sospirò Stormgren. Pieter non rilevò il tono annoiato del Segretario Generale. «Per la verità, non è un'idea mia» riprese, con modestia. «L'ho tratta da un racconto di Chesterton. Supponete che i Superni cerchino di tenere nascosto il fatto che non hanno niente da nascondere...»

«Mi sembra una premessa un po' complicata» disse Stormgren cominciando a interessarsi.

«Cercherò di spiegarmi» continuò Van Ryberg con entusiasmo. «Io credo che fisicamente siano degli esseri umani come noi. Il punto è questo: essi si rendono conto che gli uomini potrebbero sopportare di essere governati da creature che immaginano, come dire... diverse e di intelligenza superiore, ma che, essendo l'uomo com'è, rifiuterebbe di obbedire a esseri della stessa specie.»

«Ingegnosa come tutte le vostre teorie» disse Stormgren. «Mi piacerebbe che le enumeraste. Sarebbe più comodo per i riferimenti, non vi pare? La mia obiezione alla vostra ultima trovata...»

Venne interrotto dall'arrivo di Alexander Wainwright.

Stormgren si chiese che cosa passava per la testa del capo della Lega della Libertà. Si chiese anche se Wainwright si fosse messo in contatto con quelli che l'avevano rapito. Personalmente ne dubitava perché considerava autentica, genuina, la riprovazione di Wrinwright per ogni forma di violenza. Gli estremisti del suo movimento si erano screditati troppo e sarebbe passato del tempo prima che potessero tornare alla ribalta.

Il capo della Lega ascoltò attentamente la lettura del comunicato, e Stormgren si augurò che apprezzasse quel gesto dovuto a un'idea di Karellen. Il resto del mondo avrebbe conosciuto solo fra dodici ore la promessa che i Superni avevano fatto ai figli dei figli.

«Cinquant'anni» disse Wainwright, pensoso. «Un'attesa molto lunga.»

«Per la razza umana, forse, ma non per Karellen» rispose Stormgren. Soltanto adesso il Segretario Generale cominciava a comprendere l'elegante soluzione dei Superni: quella promessa concedeva loro il respiro di cui avevano bisogno e tagliava le gambe alla Lega della Libertà.

Stormgren non credeva che la Lega si sarebbe arresa, ma la sua posizione era sicuramente indebolita. Anche Wainwright doveva essersene reso conto.

«In cinquant'anni il danno sarà fatto» disse amareggiato il capo della Lega. «Tutti quelli che hanno conosciuto i giorni della nostra indipendenza saranno ormai morti, e la razza umana avrà dimenticato il suo retaggio.»

Parole... parole vuote, pensò Stormgren. Parole per le quali un tempo gli uomini combattevano e morivano, e per le quali non avrebbero combattuto mai più. E per il mondo era meglio così.

Guardando Wainwright andar via, Stormgren si domandò quanti altri guai avrebbe causato la Lega nel futuro. Ma questo, pensò con animo leggero, era un problema di cui si sarebbe occupato il suo successore.

E poi, certi mali solo il tempo poteva guarirli. Importante era non deludere gli uomini retti. Gli altri si poteva distruggerli.

 

«Eccoti la tua busta di pelle» disse Duval. «Te la rendo come nuova.»

«Grazie» disse Stormgren, esaminando ugualmente la borsa con molta attenzione. «Ora forse mi dirai il risultato e quale sarà la prossima mossa.»

Ma il fisico sembrava immerso nei suoi pensieri.

«Quello che non riesco a capire» disse «è la facilità con cui abbiamo raggiunto l'intento. Ora, se io fossi stato Karellen...»

«Ma tu non sei Karellen. Avanti, vieni al punto, Duval! Si può sapere che cosa abbiamo scoperto?»

«Ah, queste razze nordiche, ipertese, sovreccitabili!» sospirò il francese. «Quello che abbiamo inserito nella tua borsa era un radar di minima potenza, che sfrutta radioonde di altissima frequenza e l'estremo infrarosso, o per meglio dire tutte le onde che nessuna creatura vivente potrebbe vedere, avesse anche occhi soprannaturali.»

«Come fai a esserne sicuro?» domandò Stormgren.

«Non sono sicuro al cento per cento» ammise Duval, riluttante «ma Karellen ti riceve in un locale illuminato normalmente, no? Quindi i suoi occhi devono essere più o meno analoghi ai nostri, quanto a estensione spettrale. A ogni modo, il radar ha funzionato. Abbiamo avuto la prova dell'esistenza di una sala molto grande al di là del famoso schermo. Lo schermo ha uno spessore di tre centimetri, e lo spazio al di là si estende per almeno una decina di metri. Non abbiamo potuto ricevere nessuna eco della parete più lontana, ma non ci illudevamo con un radar di potenza minima. Comunque, ecco cos'abbiamo ottenuto.» Il francese spinse verso Stormgren una specie di fotografia che rappresentava un'unica linea alquanto larga. In un punto c'era come un nodo. Pareva il grafico indicante un leggero moto sismico. «Lo vedi quel segno?» domandò Duval.

«Sì. Che cos'è?»

«Karellen.»

«Oh, Dio! Ne sei sicuro?»

«È un'ipotesi ragionevolmente certa. Se ne sta in piedi o seduto, o chissà come, a due metri circa dallo schermo. Se il negativo fosse stato più chiaro, avremmo potuto calcolare le sue dimensioni.»

Stormgren guardava la leggera traccia sul foglio provando sentimenti diversi e molto vaghi. Fino a un attimo prima non esistevano prove che Karellen possedesse un corpo fisico. Ora la prova era ancora indiretta, ma lui l'accettava senza obiezioni.

«Inoltre» riprese Duval «abbiamo dovuto calcolare la penetrabilità dello schermo alla luce normale, e ora ne abbiamo un'idea abbastanza precisa. E anche se non è precisa al cento per cento, non importa. Tu capisci, naturalmente, che non esiste in realtà un vetro che lasci passare la luce in una sola direzione: si tratta soltanto di far cadere la luce secondo la giusta inclinazione. Karellen siede in una camera buia, tu sei in piena luce, e la cosa è fatta.» Duval ridacchiò. «Ma ora noi disporremo tutto in altro modo!»

Con l'aria di un negromante che si accinga a evocare un demonio, si mise a frugare in un cassetto, da cui trasse infine un grosso flash. Un'estremità della lampada si dilatava in una specie di canna sfiatatoio così che tutto il congegno ricordava un vecchio trombone da briganti.

Duval sorrise compiaciuto.

«Non è così pericolosa come sembra. Non dovrai fare altro che puntare la bocca contro lo schermo e tirare il grilletto. La lampada emana un lampo fortissimo che dura una decina di secondi, durante i quali tu avrai tutto il tempo di spazzare in cerchio la stanza dietro lo schermo e goderti il panorama. Tutta la luce passerà attraverso lo schermo centrando il tuo amico come il fascio luminoso di un faro.»

«Non rischierò di ferirlo?»

«Basterà che tu tenga la canna un po' abbassata prima di puntargliela contro, ciò darà tempo ai suoi occhi di adattarsi. Suppongo che abbia riflessi simili ai nostri... del resto non abbiamo nessuna intenzione di accecarlo.»

Stormgren guardò l'arma con aria dubbiosa, soppesandola tra le mani. Da qualche settimana la coscienza gli rimordeva. Karellen lo aveva sempre trattato con simpatia evidente, addirittura con affetto nonostante la sua franchezza a volte spietata, e Stormgren non voleva rovinare la loro amicizia ora che i loro rapporti ufficiali stavano per finire. Ma il Supercontrollore aveva ricevuto delle istruzioni precise, mentre Stormgren era convinto che, se Karellen fosse stato libero di decidere, si sarebbe mostrato agli uomini già da molto tempo. Ora avrebbe deciso lui per Karellen e, alla fine dell'ultimo incontro, Stormgren avrebbe visto la faccia del Superno.

Ammesso che Karellen avesse una faccia.

 

Il nervosismo che aveva colto Stormgren durante i primi istanti era passato. Quasi tutto il colloquio venne sostenuto da Karellen, intento a tessere le frasi complicate di cui ogni tanto mostrava di compiacersi. Un tempo questa particolarità era sembrata a Stormgren la più straordinaria e inattesa delle qualità di Karellen, ma ora non gli sembrava più tanto meravigliosa perché sapeva che, come quasi tutte le capacità del Supercontrollore, era l'effetto della forza intellettiva più che di un particolare talento.

«Non vedo la necessità per voi, o il vostro successo, di preoccuparvi oltre misura per la Lega, nemmeno quando si sarà ripresa dal suo attuale stato di depressione. In questi ultimi mesi se n'è stata tranquilla e, anche se rinascesse, non rappresenterà pericolo per chissà quanti anni. Inoltre, dato che è sempre bene sapere quello che fa l'opposizione, la Lega della Libertà è un'istituzione assai utile. Anzi, qualora si trovasse in difficoltà finanziarie, potrei anche decidere di sovvenzionarla.»

Più di una volta Stormgren si era accorto di non capire quando Karellen scherzava. Rimanendo impassibile, continuò ad ascoltare.

«Tra breve la Lega perderà un altro degli argomenti ai quali si appoggiava. Molte critiche sono state mosse, e tutte alquanto puerili, all'incarico da voi svolto in questi ultimi anni. Per me il vostro lavoro è stato utile nei primi tempi della nostra amministrazione, ma ora che il mondo ha cominciato a muoversi lungo la linea di condotta segnata da me, il vostro intervento non è più necessario. In futuro tutti i miei rapporti con la Terra saranno indiretti, e l'ufficio del Segretario Generale può tornare alle sue funzioni di una volta. Nei prossimi cinquant'anni ci saranno molte crisi, ma si risolveranno tutte. Il futuro della Terra si presenta sereno, e un giorno tutte queste difficoltà saranno dimenticate, anche da una razza dalla memoria tenace come la vostra.»

Le ultime parole furono dette in tono tanto significativo, che Stormgren si sentì gelare. Karellen non parlava mai a caso, e anche le sue indiscrezioni erano calcolate al decimillesimo. Ma non ci fu il tempo di far domande (a cui certamente sarebbe stato risposto) prima che il Supercontrollore cambiasse ancora argomento.

«Mi avete spesso rivolto domande sui nostri piani a lunga scadenza» riprese Karellen. «La costituzione dello Stato Mondiale non è, naturalmente, che il primo passo. Prima che la vostra vita volga alla fine, ne vedrete il compimento, ma i cambiamenti saranno talmente impercettibili che pochi se ne accorgeranno. Poi seguirà un periodo di graduale consolidamento, mentre la vostra razza si preparerà all'incontro con la mia. E infine, verrà il giorno promesso. Mi dispiace che quel giorno voi non ci sarete.»

Gli occhi di Stormgren erano bene aperti, con lo sguardo fisso su un punto oltre la opaca barriera dello schermo. Guardava il futuro, cercando d'immaginare il giorno che lui non avrebbe mai veduto, quando le grandi astronavi dei Superni sarebbero finalmente calate sulla Terra per spalancare i portelli al mondo in attesa.

«Quel giorno» continuò Karellen «la razza umana conoscerà quella che si può definire una soluzione di continuità psicologica. Ma non gliene verrà alcun male: l'uomo di quel tempo sarà molto più saldo dei suoi padri. Noi saremo sempre stati parte della sua vita e quando ci vedrà non gli appariremo così... strani... come appariremmo a voi.»

Stormgren non aveva mai sentito Karellen in una vena così pensosa e trasognata, ma non si stupì. Sapeva di non aver conosciuto che poche sfaccettature della personalità del Supercontrollore: il vero Karellen era sconosciuto, e forse inconoscibile, al genere umano. Ancora, Stormgren ebbe la sensazione che i veri interessi del Superno fossero altrove e che egli governasse la Terra soltanto con una frazione della sua mente, senza bisogno di concentrarsi, con la stessa facilità con cui un campione di scacchi tridimensionali gioca una partita a dama.

«E poi?» domandò Stormgren dolcemente.

«Potremo cominciare il nostro vero lavoro.»

«Mi sono spesso domandato in che cosa consista. Mettere ordine nel nostro mondo e incivilire la razza umana è soltanto un mezzo. Avrete pure un fine. Noi non saremo mai in grado di emergere nello spazio cosmico e vedere il vostro universo... di aiutarvi nei vostri compiti?»

«Potrebbe anche andare così» disse Karellen, e ora aveva nella voce una sfumatura chiarissima, se pure inesplicabile, di tristezza, che lasciò Stormgren stranamente turbato.

«Ma se il vostro esperimento col genere umano fallisse? Noi abbiamo conosciuto questo genere di cose trattando con le razze umane primitive. Immagino che anche voi abbiate conosciuto delle sconfitte, no?»

«Sì» disse Karellen, con voce talmente sommessa che Stormgren poté appena udirlo. «Anche noi abbiamo avuto le nostre sconfitte.»

«E che cosa fate in questi casi?»

«Aspettiamo, e poi ritentiamo.»

Ci fu una pausa che durò forse cinque secondi. Quando Karellen parlò di nuovo, le sue parole furono così inattese che per un istante Stormgren non rispose.

«Arrivederci, Rikki!»

Karellen lo aveva raggirato abilmente ancora una volta., forse era già troppo tardi. La paralisi di Stormgren durò solo un attimo. Poi, con un sol gesto, rapido, preciso, trasse di tasca la pistola a lampo e la puntò contro il vetro.

 

I pini arrivavano fin quasi sulle sponde del lago, lasciando libera soltanto una striscia erbosa, non più larga di qualche metro. Ogni sera, quando la stagione era sufficientemente calda, Stormgren, nonostante i suoi novant'anni, faceva una passeggiata su quella striscia erbosa fino all'imbarcadero, ad ammirare il sole al tramonto, per poi tornare a casa prima che il gelido vento notturno cominciasse a soffiare dalla foresta. Quella specie di rito gli dava soddisfazione, e lui intendeva continuarlo fino a quando avesse avuto la forza di reggersi.

Basso sul lago, un aereo avanzava veloce da ponente. A parte i grandi apparecchi delle linee transpolari che volavano a quote altissime, non capitava spesso di vedere aerei da quelle partì.

Il velivolo era un piccolo elicottero e puntava deciso nella sua direzione.

Stormgren lanciò un'occhiata lungo la spiaggia e non vide possibilità di fuga. Con un'alzata di spalle, si sedette allora su una panchina all'estremità del molo.

Il giornalista si dimostrò così deferente che Stormgren rimase sbalordito. Si era quasi dimenticato di essere non solamente un vecchio statista a riposo ma, oltre i confini del suo Paese, una figura quasi leggendaria.

«Signor Stormgren» cominciò il giornalista «sono desolato di disturbarvi, ma sareste disposto a fare qualche commento a proposito di una cosa che abbiamo appena saputo a proposito dei Superni?»

Stormgren aggrottò la fronte. Dopo tanti anni, condivideva ancora l'avversione di Karellen per quella parola pomposa e inadeguata.

«Non credo» rispose «che io possa aggiungere altro a quanto è già stato scritto.»

Il giornalista lo osservava con intensa curiosità.

«Credo che possiate, invece. Ci è giunta una notizia alquanto curiosa. Sembra che quasi trent'anni fa, uno dei fisici del Dipartimento Scientifico abbia costruito per voi alcuni strumenti complicati. Vorremmo saperne qualche cosa.»

Per un istante Stormgren non rispose, riandando con la memoria al passato. Non lo sorprendeva che il segreto fosse stato scoperto. Anzi, era sorprendente che fosse stato mantenuto per tanti anni.

Cominciò a camminare lungo il molo, col giornalista che lo seguiva a due o tre passi di distanza.

«La notizia» disse «contiene una parte di verità. In occasione della mia ultima visita sull'astronave di Karellen portai con me un congegno nella speranza che mi consentisse di vedere il Supercontrollore. Fu un gesto molto sciocco da parte mia, ma... be', avevo solo sessant'anni, a quel tempo!» Ridacchiò per conto suo, e riprese: «Non valeva la pena di trasvolare il lago. Perché, vedete, il congegno non funzionò.»

«Non avete visto niente?»

«Niente nel modo più assoluto. Temo che dovrete aspettare ancora... dopo tutto, mancano solo vent'anni!»

Ancora vent'anni d'attesa! Sì, Karellen aveva avuto ragione. Allo scadere di quei cinquant'anni il mondo sarebbe stato preparato, come non lo era ancora quando Stormgren aveva detto a Duval, quasi un trentennio prima, la stessa bugia che aveva detto ora al giornalista.

Karellen s'era fidato di lui, e Stormgren non aveva tradito la sua fiducia. Era certo più d'ogni altra cosa al mondo che il Supercontrollore aveva saputo del suo piano fin dal primo momento e previsto ogni mossa della fase conclusiva.

Diversamente, perché mai avrebbe dovuto già essere vuota l'enorme poltrona quando il cerchio di luce l'aveva illuminata? Immediatamente Stormgren aveva fatto roteare il raggio luminoso, temendo che fosse ormai troppo tardi. La porta metallica, altissima, si stava chiudendo rapidamente, ma non tanto rapidamente quanto sarebbe stato necessario.

Sì, Karellen aveva avuto fiducia in lui e non aveva voluto che si allontanasse per la lunga sera della sua vita ossessionato da un mistero che non avrebbe mai potuto risolvere. Pur non osando sfidare gli ignoti poteri a cui doveva obbedienza (erano essi pure della stessa razza?), Karellen aveva fatto tutto quello che aveva potuto. Aveva disobbedito, ma loro non ne avrebbero mai avuto la prova. E quella era stata la dimostrazione definitiva dell'affetto che Karellen nutriva per Stormgren. Anche se si poteva paragonarlo all'affetto di un uomo per un cane intelligente e fedele, non era per questo un affetto meno sincero, e Stormgren aveva avuto poche soddisfazioni più grandi in tutta la sua vita.

"Abbiamo avuto anche noi le nostre sconfitte".

Sì, Karellen, era vero, ed eravate voi quello che fu sconfitto avanti l'alba della storia umana? Deve essere stata una grande sconfitta davvero, pensava Stormgren, se l'eco era rotolata giù per tutti gli evi, a ossessionare l'infanzia d'ogni razza umana. Sarebbero bastati cinquant'anni per vincere il potere di tutti i miti e le leggende del mondo?

Eppure Stormgren sapeva che non ci sarebbe stata una seconda sconfitta. Quando le due razze si fossero incontrate di nuovo, i Superni si sarebbero conquistata la fiducia e l'amicizia del genere umano e nemmeno il colpo della rivelazione avrebbe potuto distruggere la loro opera. Sarebbero andati insieme incontro al futuro, e la tragedia che aveva incupito il passato con la sua ombra si sarebbe perduta per sempre in fondo agli oscuri meandri della preistoria.

E Stormgren sperò che, quando fosse stato libero di porre ancora una volta il piede sulla Terra, Karellen sarebbe venuto un giorno tra le foreste della Finlandia boreale a sostare un poco presso la tomba del primo uomo che mai gli fosse stato amico.

 

PARTE SECONDA

L'ETÀ DELL'ORO

 

4

 

"Ecco la grande giornata!" comunicavano in cento lingue gli apparecchi radio. "Il gran giorno è venuto!", proclamavano i titoli di prima pagina di mille quotidiani. "Oggi è il gran giorno!" pensavano gli operatori delle telecamere, controllando le loro macchine disposte intorno al grande spiazzo dove l'astronave di Karellen doveva calare.

C'era soltanto la grande nave ammiraglia ora, sospesa nel cielo di New York. Infatti, come il mondo aveva appena scoperto, le astronavi immobili nel cielo delle altre città dell'uomo non erano mai esistite. Il giorno prima, la gran flotta dei Superni si era dissolta nel nulla, svaporando come la nebbia sotto la rugiada del mattino.

Le navi di rifornimento, che andavano e venivano dalle profondità dello spazio cosmico, erano state reali; ma le vaste ombre d'argento che erano rimaste sospese per la durata di una vita umana su quasi tutte le capitali della Terra erano soltanto illusione. Nessuno avrebbe saputo dire in che modo era stata creata l'illusione, ma sembrava che ognuna di quelle astronavi non fosse stata che un'immagine dell'ammiraglia di Karellen. Ma era stato ben mollo più di un abile gioco di luci, perché anche i radar si erano lasciati ingannare, e vivevano ancora persone pronte a giurare di aver sentito il sibilo lamentoso dell'aria squarciata dalle prore astrali quando la flotta era penetrata nell'atmosfera della Terra.

Ma questo non era importante: ciò che ora importava davvero era il fatto che Karellen non vedesse più la necessità di uno spiegamento di forze. Aveva rinunciato alle sue armi psicologiche.

«L'astronave si muove!» corse la voce, spargendosi fulminea su tutto il pianeta. «Si dirige verso ponente!»

A meno di mille chilometri all'ora, scendendo mollemente dalle vuote altezze della stratosfera, l'astronave muoveva verso le grandi praterie, puntuale al suo secondo convegno con la storia. Si adagiò dolcemente sul terreno davanti agli obiettivi in attesa e alle migliaia e migliaia di spettatori addensati in lunghe file, ben pochi dei quali potevano vedere tutto ciò che vedevano i milioni di uomini e donne riuniti davanti ai televisori.

Il terreno avrebbe dovuto spaccarsi e tremare sotto il peso incredibile della nave immensa, ma lo scafo era ancora nella morsa delle forze cosmiche che le permettevano di navigare tra le stelle. Baciò la terra con la delicatezza di un fiocco di neve.

A venti metri d'altezza dal suolo, la gran parete ricurva parve scorrere e tremolare: dove c'era fino a un attimo prima una superficie liscia e levigata, rilucente come la piastra di uno scudo, comparve una vasta apertura. Non si vide niente dell'interno. Non videro niente nemmeno gli occhi inquisitori delle macchine da presa. Era scura come l'ingresso di una caverna.

Poi, un'ampia passerella scintillante ne sporse e cominciò a scorrere verso il basso. La si sarebbe detta una lunga lastra di metallo compatto con balaustre ai due lati. Non si vedevano scalini: era liscia e ripida come una pista di toboga e sembrava impossibile salirla o scenderla con mezzi normali.

Il mondo intero stava guardando quel nero portale entro cui niente ancora si muoveva. Quindi la voce, udita di rado ma indimenticabile di Karellen, si diffuse dolcemente provenendo da una fonte ben celata. Il suo messaggio non sarebbe potuto essere più inatteso.

«Ci sono dei bambini ai piedi della passerella. Gradirei che due di loro salissero a incontrarmi.»

Per un istante regnò un immenso silenzio. Quindi un bambino e una bambina uscirono dalla folla e si diressero, senza il minimo timore, verso la passerella per entrare nella storia. Altri li seguirono, ma si fermarono di colpo quando dalla nave giunse la risata di Karellen.

«Due bastano.»

Impazienti, pregustando già l'avventura, i due bambini - non dovevano avere più di sei anni - saltarono sulla pista metallica. E fu allora che si verificò il primo miracolo.

Salutando allegramente con la mano la folla sottostante e i loro genitori, che probabilmente si ricordavano in ritardo della leggenda del Pifferaio di Hamelin, i bambini cominciarono a salire rapidamente sul piano incredibilmente inclinato. Ma le loro gambe erano immobili, e in breve si vide che i loro corpi erano inclinati ad angolo retto con la strana passerella che possedeva una sua propria forza di gravità, evidentemente capace di annullare quella della Terra. I bambini stavano ancora godendo la novità di quell'esperienza, chiedendosi forse quale fosse la forza che li attirava verso l'alto, quando scomparvero nell'interno della nave.

Un immenso silenzio calò sul mondo intero per lo spazio di venti secondi; anche se in seguito nessuno poté credere che l'intervallo fosse stato tanto breve. Poi l'ombra densa della grande apertura parve venire in avanti, e improvvisamente Karellen si materializzò nella luce del sole. Aveva il bambino seduto sul braccio sinistro, la bimba rannicchiata sul destro. Erano entrambi troppo occupati a giocare con le ali di Karellen per osservare la folla.

Fu un omaggio alla psicologia dei Superni e agli anni della loro meticolosa preparazione, che solo pochissimi dei presenti svenissero.

Ma dovettero essere in numero ancora minore quelli che in tutto il mondo non sentirono un brivido dell'antico terrore sfiorare per un orribile istante le loro menti, prima che la ragione lo bandisse per sempre.

Non c'era da sbagliarsi. Le ali di cuoio, le piccole corna, la coda forcuta erano là sotto gli occhi di tutti. La più terribile di tutte le narrazioni mistiche si era fatta realtà, uscendo da un passato lontanissimo. Ma ora stava sorridendo, in una sua maestà di ebano, con la luce del sole scintillante sul corpo terribile, e con un bambino d'uomo accoccolato su ogni braccio.

 

5

 

Cinquant'anni sono un periodo di tempo sufficientemente lungo a mutare un mondo e la sua popolazione fino a renderli irriconoscibili. Tutto quello che occorre è una profonda conoscenza della tecnica, una veduta molto chiara della mèta che ci si prefigge e potenza.

Tutte cose che i Superni possedevano. Sebbene il loro fine fosse un segreto, la loro scienza era palese, come la loro potenza.

Questo potere si esplicava in forme diverse, forme che spesso non erano capite dai popoli al cui destino i Superni avevano presieduto. La potenza era rappresentata dalle grandi astronavi, e quelle, tutti potevano vederle. Ma dietro questa evidente forma di forza c'erano altri mezzi, e più sottili.

«Ogni problema politico» aveva detto una volta Karellen a Stormgren «può essere risolto dal corretto uso del potere.»

«Mi sembra una affermazione alquanto cinica» aveva risposto Stormgren, poco convinto. «Sa un po' di "Volere è potere". Nel nostro passato sono infiniti gli esempi di problemi che il potere non è riuscito a risolvere.»

«C'è un errore sostanziale. Voi non avete mai posseduto né potere reale né le capacità indispensabili per applicarlo. In questo, come in ogni problema, esistono modi efficaci o inefficaci di affrontare la soluzione. Supponete, ad esempio, che una delle nazioni terrestri sotto la guida di un capo fanatico tenti di ribellarsi a me. La risposta più inefficace a una minaccia del genere sarebbe l'uso dell'immensa energia racchiusa nelle bombe atomiche. Usando un certo numero di bombe si avrebbe una soluzione completa e definitiva. Ma, come ho detto, sarebbe una soluzione inefficace, anche a non voler tener conto degli altri difetti.»

«E quale sarebbe la soluzione efficace?»

«Quella che non richiede più potenza di una minuscola radio trasmittente, ma esige le stesse qualità occorrenti per costruire e far funzionare una simile radio. È il modo d'impiegare la potenza, qualunque potenza, non la quantità. Quanto credete che sarebbe durata la carriera di dittatore di Hitler se sempre, in qualsiasi posto, una voce tranquilla, pacata, gli avesse parlato all'orecchio? O se una nota musicale, sufficientemente alta da superare ogni altro suono e da impedirgli di dormire, gli fosse risuonata nel cervello giorno e notte? Niente di brutale, come vedete, eppure in ultima analisi un sistema infallibile come una bomba all'idrogeno.»

«Capisco» disse Stormgren. «E non sarebbe possibile sfuggire a questo sistema?»

«Non esiste nascondiglio dove i miei... diciamo sistemi non possano penetrare se io lo voglio. Ecco perché non devo mai ricorrere ai tradizionali mezzi drastici per conservare la mia posizione.»

Le grandi astronavi dei Superni non erano mai state altro che dei simboli, e adesso il mondo sapeva che solo una, solo quella di Karellen esisteva veramente: le altre erano soltanto immagini. Eppure era bastata la loro presenza a cambiare la storia della Terra. Adesso il loro compito era finito, ma l'eco di quel che avevano fatto sarebbe durato per secoli.

I calcoli di Karellen erano stati esatti. Il primo istante di repulsione era passato rapidamente, sebbene fossero molti coloro che, mentre si vantavano di essere immuni d'ogni superstizione, non sarebbero mai stati capaci di guardare in faccia uno dei Superni. C'era qualche cosa di strano in questo, qualcosa che andava al di là della ragione e della logica. Nel Medio Evo, la gente credeva nel diavolo e lo temeva. Ma ora si viveva nel XXI secolo: possibile che, dopo tutto, esistesse ancora una memoria razziale?

Se ne era universalmente dedotto che i Superni, sempre uomini della stessa specie, si fossero trovati in conflitto violento con l'uomo preistorico, in un passato molto remoto dato che l'urto non aveva lasciato tracce nella storia scritta. Era questo un altro rompicapo, ma Karellen non aveva voluto dare nessun aiuto per la soluzione.

I Superni, sebbene si fossero ora mostrati all'uomo, lasciavano molto di rado la loro unica nave. Forse stare coi piedi sulla Terra era fisicamente penoso, dato che le loro dimensioni e l'esistenza delle ali indicavano la provenienza da un mondo di gravità notevolmente inferiore a quella terrestre. Non li si vedeva mai senza una cintura adorna di meccanismi complessi, che, si credeva generalmente, regolavano il loro peso e permettevano loro di comunicare l'uno con l'altro. La luce solare diretta era penosa ai loro occhi tanto che non vi restavano esposti più di qualche secondo. Quando dovevano uscire allo scoperto per una qualunque durata di tempo, portavano occhiali che conferivano loro un aspetto per lo meno incongruo. Quantunque sembrassero in grado di respirare l'aria terrestre, spesso portavano con sé dei piccoli cilindri di gas, a cui ogni tanto attingevano per rinfrescarsi i polmoni.

Sotto molti punti di vista, la comparsa dei Superni aveva posto più problemi di quanti ne avesse risolti. La loro origine era ancora sconosciuta, la loro costituzione biologica fu fonte d'interminabili supposizioni. Di molti argomenti davano la spiegazione liberamente, ma a proposito di altri si poteva dire che il loro atteggiamento era ispirato al più geloso riserbo. Nell'insieme, tuttavia, ciò dispiaceva solo agli scienziati. L'uomo medio, pur preferendo non doversi incontrare coi Superni, era loro grato per quello che avevano fatto di bene al suo mondo.

Dal punto di vista di ère precedenti, era l'avvento di Utopia. Ignoranza, malattie, povertà e timore erano virtualmente scomparsi. Il ricordo della guerra sfumava nel passato come un incubo si dissolve ai primi albori: in breve sarebbe rimasta al di là delle esperienze di tutti i vivi.

Con le energie del genere umano incanalate in numerosi sensi costruttivi, la faccia del mondo era stata rifatta. Era, quasi alla lettera, un nuovo mondo, le città che si erano rivelate utili alle generazioni precedenti erano state ricostruite o abbandonate, o trasformate in oggetti da museo quando avevano cessato di servire qualunque scopo utile. Molte città erano già state abbandonate in tal modo, perché tutto il sistema industriale e commerciale era cambiato radicalmente. La produzione adesso era prevalentemente automatica: le fabbriche-automa rovesciavano sul mercato beni di consumo in tali ininterrotte fiumane che tutti i generi di prima necessità erano virtualmente gratuiti. Gli uomini lavoravano per i generi voluttuari preferiti: o non lavoravano affatto.

Era Un Solo Mondo. Gli antichi nomi delle nazioni erano ancora in uso, ma non rappresentavano più che comode divisioni postali. Non c'era nessuno sulla Terra che non parlasse inglese, che fosse analfabeta, che non si trovasse nelle immediate vicinanze di un televisore, che non potesse visitare l'altro emisfero entro ventiquattr'ore.

La delinquenza era praticamente scomparsa. Era diventata inutile, e impossibile. Quando a un individuo non manca niente, rubare non ha senso. Inoltre, ogni criminale in potenza sapeva che era impossibile sfuggire alla sorveglianza dei Superni. Ai primordi del loro dominio, questi erano intervenuti con tale prontezza ed efficacia a favore della legge e dell'ordine, che la lezione non era stata più dimenticata.

Degli stessi delitti passionali, anche se non del tutto scomparsi, non si sentiva quasi più parlare. Ora che tanti dei suoi problemi psicologici erano stati risolti, l'umanità era di gran lunga più sana e meno irrazionale. E quello che generazioni precedenti avrebbero chiamato vizio non era più ormai che, nel peggiore dei casi, una dimostrazione di cattivo gusto o di scarsa educazione.

Uno dei mutamenti più notevoli era stato il placarsi del folle ritmo che aveva caratterizzato la vita quotidiana del ventesimo secolo. La vita era molto più tranquilla di quanto non lo fosse stata da generazioni. Aveva sì meno sapore per qualcuno, ma molta più tranquillità per tutti gli altri. L'uomo occidentale aveva reimparato, cosa che il resto del mondo non aveva mai dimenticato, che non c'era niente di peccaminoso nel piacere, ove questo non degenerasse nella mollezza e nella inettitudine.

Quali che fossero i problemi che l'avvenire riserbava all'uomo, il tempo non gravava ancora troppo sulle sue mani. Gli studi erano molto più completi e duravano più a lungo. Pochissimi erano coloro che lasciavano gli studi prima dei vent'anni: e questa era la prima fase, perché solitamente li si riprendeva a venticinque, per altri tre anni, dopo che viaggi ed esperienze vissute avevano allargato la mente. Ma anche dopo avrebbero continuato a intervalli di qualche anno a seguire corsi supplementari per tutto il resto della vita, scegliendo le discipline che più li attirassero.

Un'altra trasformazione fu rappresentata dall'estrema mobilità della nuova società. Grazie alla perfezione dei trasporti aerei, ognuno era libero di recarsi ovunque in qualunque momento, senza prenotazioni o preavvisi di sorta. C'era più spazio nel cielo di quanto ce ne fosse mai stato sulle strade, e il ventunesimo secolo aveva ripetuto su più vasta scala l'impresa grandiosa compiuta dagli Stati Uniti nel motorizzare una intera nazione. Il ventunesimo secolo aveva dato al mondo le ali. Ma era un modo di dire. Il comune aereo privato, o aeromobile, non aveva affatto le ali, nemmeno la più piccola sporgenza d'un controllo di superficie. Perfino le goffe pale del motore degli antichi elicotteri erano state bandite. Ma l'uomo non aveva scoperto l'anti-gravità: soltanto i Superni possedevano quest'ultimo segreto. I loro aeromobili erano mossi da forze che i fratelli Wright non avrebbero capito. I reattori a getto, usati tanto direttamente quanto nella forma più progredita di controllo a strato-limite, spingevano i velivoli e li mantenevano nello spazio. Quello che nessuna norma e nessun editto dei Superni avrebbe potuto fare altrettanto bene, l'abolizione delle ultime frontiere tra le diverse tribù del genere umano, l'avevano fatto i piccoli onnipotenti aeromobili dei singoli cittadini del mondo.

C'erano mutamenti anche più profondi. Era un evo del tutto laico. Delle fedi esistite prima dell'avvento dei Superni, solo una forma puritana di buddismo, la più austera, forse, di tutte le religioni, sopravviveva ancora.

Ma sebbene pochissimi, per il momento, se ne accorgessero, il declino della religione fu accompagnato da un declino della scienza. C'era una pletora di tecnologi, ma pochi erano gli originali pensatori che sapessero estendere le frontiere delle conoscenze umane. Restava la curiosità, insieme con il tempo e l'agio di potervi indulgere, ma dalle ricerche scientifiche fondamentali era stato strappato il cuore. Sembrava futile spendere un'intera esistenza alla ricerca di segreti che i Superni avevano già svelato da millenni.

Questo declino era stato parzialmente velato da un'enorme fioritura delle scienze descrittive, quali zoologia, botanica e astronomia. Non c'erano mai stati tanti scienziati dilettanti che raccogliessero dati per semplice svago, ma erano pochi i teorici che ponessero in correlazione tra loro questi dati.

La fine della lotta per la vita e dei conflitti d'ogni genere aveva anche segnato la fine virtuale delle arti creative. Esistevano miriadi di esecutori e operatori, dilettanti e professionisti, ma in realtà non si producevano nuove opere di autentico rilievo nel campo della letteratura, della musica, della pittura e della scultura, da almeno una generazione. Il mondo viveva ancora delle glorie d'un passato che non poteva tornare.

Nessuno se ne preoccupava, eccettuato qualche filosofo. La specie era troppo intenta ad assaporare la libertà di recente acquisizione per voler guardare oltre i piaceri del presente. L'avvento di Utopia era finalmente un fatto compiuto: la novità non era ancora stata intaccata dal più grande nemico di tutte le Utopie: la noia.

Forse i Superni possedevano la risposta a ciò, come la possedevano per ogni altro problema. Nessuno lo sapeva, non più di quanto gli uomini sapessero, a un'intera esistenza dal loro arrivo, quale fosse il loro scopo ultimo. Il genere umano si era abituato ad avere fiducia in loro e ad accettare senza domande l'altruismo sovrumano che aveva tenuto per tanto tempo Karellen e i suoi simili esuli dalle loro case.

Sempre che fosse altruismo. Perché c'era ancora chi si domandava se la politica dei Superni sarebbe sempre coincisa col vero benessere dell'umanità.

 

6

 

Quando Rupert Boyce diramò gli inviti per la festa, la somma delle distanze espresse in miglia o chilometri risultò impressionante. Per elencare soltanto i primi dodici invitati, c'erano i Foster, che venivano da Adelaide, in Australia, gli Shoenberger da Haiti, i Farran da Stalingrado, i Moravia da Cincinnati, gli Invanko da Parigi e i Sullivan dai paraggi immediati dell'Isola di Pasqua, ma a quattro chilometri di distanza, presumibilmente, sul fondo dell'oceano. Fu un omaggio particolare a Rupert che, sebbene fossero stati invitati una trentina di ospiti, si presentarono alla villa più di quaranta persone: la percentuale che più o meno Rupert aveva previsto. Soltanto i Krause lo delusero, ma fu perché non avevano tenuto conto della differenza di data a causa dei fusi orari, e arrivarono così ventiquattr'ore più tardi.

A mezzogiorno una raccolta imponente di aerei si era radunata nel parco, e gli ultimi arrivati dovettero percorrere un bel tratto a piedi, dopo aver trovato un punto favorevole all'atterraggio. Gli apparecchi parcheggiati erano di ogni tipo, dai Fitterburg monoposto alle Cadillac per famiglia, molto più simili a palazzi aerei che a nervose macchine volanti. In quell'èra tuttavia non si poteva dedurre lo stato sociale degli invitati dai loro mezzi di trasporto.

«Ma che brutta villa» disse Jean Morrei, mentre il loro Meteor scendeva a spirale. «Sembra una scatola su cui qualcuno abbia appoggiato un piede.»

George Greggson, che aveva un'antipatia d'altri tempi per gli atterraggi automatici, modificò l'angolo d'inclinazione prima di rispondere. «Non si può giudicare la villa guardandola da quassù. A livello del terreno si presenta in tutt'altro modo. Oh, povero me!»

«Che cosa è successo?»

«Ci sono anche i Foster. Riconoscerei quelle sfumature di vernice ovunque.»

«Be', nessuno ti obbliga a rivolgere loro la parola, se non vuoi. C'è questo vantaggio almeno, alle feste organizzate da Rupert: puoi sempre nasconderti in mezzo alla folla degli invitati.»

George aveva scelto un punto d'atterraggio e ora vi stava scendendo in picchiata. Andarono a posarsi librandosi lievi tra un altro Meteor e un coso che nessuno dei due riuscì a identificare. Aveva l'aria di essere velocissimo, pensò Jean, e terribilmente scomodo. Uno dei tecnici amici di Rupert, immaginò lei, l'aveva probabilmente costruito con le sue mani. Le pareva che ci fosse una legge che proibiva questo genere di cose.

Il calore li colpì come la vampa di una fiamma ossidrica nell'istante in cui smontarono dall'apparecchio. Parve succhiare tutta l'umidità dei loro corpi, e George ebbe l'impressione che gli scricchiolasse la pelle. In parte era colpa loro, però. Erano partiti dall'Alaska tre ore prima, e avrebbero anche potuto pensare a condizionare la temperatura della cabina concordemente.

«Che razza di posto per abitare!» boccheggiò Jean. «Credevo che questo clima fosse condizionato!»

«Così è infatti» rispose George. «Qui era tutto deserto, un tempo; e guarda adesso che vegetazione! Vieni, staremo divinamente, una volta entrati in casa.»

La voce di Rupert, un po' più alta del volume naturale, rimbombò allegramente nelle loro orecchie. L'ospite era ritto presso l'aereo, un bicchiere in ogni mano, e li guardava dall'alto in basso con aria sorniona. Ma li guardava dall'alto in basso per la semplice ragione che era alto almeno tre metri e mezzo ed era anche semitrasparente. Si poteva guardare attraverso il suo corpo senza la minima difficoltà.

«Bello scherzo da fare all'ospite, che dovrebbe essere sacro!» protestò George. Aveva allungato una mano verso i bicchieri, e la mano c'era passata attraverso, come se i bicchieri fossero fatti d'aria. «M'auguro che tu abbia qualche cosa di meno rarefatto, per noi, quando saremo dentro.»

«Non ti preoccupare» disse Rupert. «Ordina da qui e troverai ogni cosa che ti aspetta appena sarai entrato!»

«Due birre grandi raffreddate in aria liquida» disse George prontamente. «Arriveremo fra un minuto.»

Rupert annuì, depose uno dei suoi bicchieri su un'invisibile tavola, regolò una leva altrettanto invisibile e scomparve di colpo.

«Però!» disse Jean. «È la prima volta che vedo uno di questi congegni in azione. Come ha fatto Rupert a procurarselo? Credevo che solo i Superni li avessero.»

«Hai mai saputo che Rupert non sia riuscito ad avere qualche cosa che voleva?» rispose George, «È proprio il balocco che fa per lui. Mentre se ne sta tranquillamente seduto nel suo studio, può andarsene in giro per mezza Africa. Niente caldo, niente insetti, nessuno sforzo, e il bar sempre a portata di mano. Sarei curioso di sapere che ne avrebbero detto Stanley e Livingstone!»

Il sole troncò ogni altro scambio di parole fino a quando non furono davanti alla villa. Erano giunti sulla porta, che non era molto facile a distinguersi dal resto della parete di vetro che si levava loro dinanzi, quando la porta si spalancò automaticamente fra un tripudio di fanfare. Jean pensò, e a ragione, che ne avrebbe avuto fin sopra i capelli di quelle fanfare, prima che la festa fosse finita.

La signora Boyce del momento li accolse nella deliziosa frescura dell'ingresso. A dire la verità, era lei la principale ragione di tanto concorso di invitati. Non più della metà sarebbe venuta in ogni caso per vedere la nuova villa di Rupert: gli incerti si erano decisi in virtù di ciò che si diceva della nuova moglie di Rupert.

Soltanto un aggettivo poteva descriverla adeguatamente: sconvolgente. Anche in un mondo dove la bellezza muliebre era ormai comune, gli uomini voltavano la testa al suo passaggio. Doveva avere nelle vene, sospettò George, una discreta percentuale di sangue negro: il profilo era squisitamente greco, e i capelli lunghi, folti e morbidi. Solo la trama bruna, compatta, della pelle, la troppo usata parola "cioccolata" era l'unica che potesse definirla, rivelava la sua origine mista.

«Siete Jean e George, non è vero?» disse la bella donna porgendo la mano. «Sono così lieta di conoscervi! Rupert sta facendo non so che cosa complicata con le bibite... Su, accomodatevi, e fate la conoscenza di tutti gli altri!»

Aveva una voce vibrante, da contralto, che fece correre piccoli brividi per la spina dorsale di George, come se qualcuno gli stesse suonando il piffero sulla colonna vertebrale. Lanciò un'occhiata inquieta a Jean, che era riuscita a mettere insieme un sorriso alquanto artificioso, e finalmente ritrovò la voce. «È un gran piacere conoscervi» disse, penosamente. «Non vedevamo l'ora di venire alla vostra festa.»

«Rupert dà sempre delle feste meravigliose» intervenne Jean. Ma dal modo con cui aveva calcato la voce su quel "sempre", si capiva che aveva voluto dire: "Ogni volta che si sposa". George arrossì lievemente, e lanciò a Jean un'occhiata di rimprovero, ma non ci fu nessun indizio che la loro ospite avesse accusato la frecciata. Cordialità fatta persona, li introdusse nel salone già gremito da una bella rappresentanza di amici di Rupert. Lui sedeva davanti al quadro di una specie di telecamera: il congegno, senza dubbio, ritenne George, che aveva proiettato la sua immagine nel parco per dare loro il benvenuto. In quel momento era occupatissimo a darne dimostrazione, sorprendendo altri due invitati nell'istante in cui scendevano nella zona di atterraggio, e s'interruppe giusto il tempo per salutare Jean e George e scusarsi per aver fatto servire le loro birre a un'altra coppia.

«Troverete tutta la birra che vorrete laggiù» disse, sventolando vagamente una mano, mentre con l'altra girava le manopole del suo apparecchio. «Mettetevi a vostro agio, vi prego. Dovete conoscere quasi tutti, qui... Maia vi presenterà agli altri. Siete stati gentili a venire.»

«Molto gentile tu a invitarci» disse Jean, senza troppa convinzione.

George era già partito per il banco dei rinfreschi, e lei lo seguì subito, scambiando ogni tanto un saluto con qualche persona che conosceva. Tre quarti dei presenti le erano sconosciuti, come di norma a tutte le feste di Rupert.

«Facciamo un piccolo giro di esplorazione» disse a George, dopo che ebbero bevuto e salutato con cenni della mano tutti gli invitati di loro conoscenza. «Voglio dare un'occhiata alla villa.»

Dopo un'occhiata furtiva a Maia Boyce, George la seguì. Negli occhi aveva una espressione trasognata che a Jean non piaceva nemmeno un po'. Un bel fastidio che gli uomini fossero tendenzialmente poligami! D'altra parte, se non lo fossero stati... Sì, era meglio così, forse.

George ritornò rapidamente alla normalità mentre ispezionavano le meraviglie della nuova dimora di Rupert. La casa sembrava molto grande per due persone, ma la vastità era giustificata dai frequenti sovraccarichi che avrebbe dovuto sopportare. Si componeva del pianterreno e del primo piano, questo molto più largo e sporgente in modo da fornire l'ombra necessaria intorno al pianterreno. Il grado di meccanizzazione era notevole; la cucina ricordava molto da vicino la cabina di comando di un aereo di linea.

«Povera Ruby!» disse Jean. «Chi sa quanto le sarebbe piaciuta questa villa!»

«Da quel che ho saputo» rispose George, che non aveva mai avuto molta simpatia per la ex signora Boyce «la povera Ruby vive in stato di felicità perfetta col suo amico australiano.»

La cosa era talmente risaputa, che Jean non trovò niente da ribattere e cambiò argomento.

«È una gran bella donna, no?»

George stava in guardia per non cadere in trappola.

«Oh, direi di sì» rispose in tono indifferente. «Sempre per chi, naturalmente, preferisca le brune.»

«Preferenza che tu non hai, vero?» disse Jean, soave.

«Non essere gelosa, cara, ti prego» rise George, accarezzandole i capelli color platino. «Andiamo a dare un'occhiata alla biblioteca. Dove credi che sia? A pianterreno o al primo?»

«Dev'essere al primo piano: non. c'è più posto quaggiù. E poi s'intona alla disposizione generale della villa. Salotti, sale da pranzo, camere da letto si trovano a pianterreno. Mentre di sopra ci sono i reparti svaghi e sport diversi. Però mi sembra pazzesco una piscina al primo piano.»

«Eppure una ragione deve esserci» disse George aprendo una porta a caso. «Rupert deve essere stato consigliato molto bene, quando ha fatto costruire questa villa. Non avrebbe potuto fare tutto di testa sua.»

«Credo che tu abbia ragione. Diversamente, ora vedremmo delle camere senza porte e scale che non portano in nessun posto. A dirti la verità, avrei paura a mettere piede in una casa che Rupert avesse disegnato interamente da sé.»

«Eccoci arrivati» disse George, con l'orgoglio di un ufficiale di rotta dopo un atterraggio di fortuna. «La favolosa collezione Boyle nella sua nuova sede. Sarei curioso di sapere quanti di questi libri Rupert ha letto veramente.»

La biblioteca occupava l'intera lunghezza della casa, ma era divisa in una mezza dozzina di salette dai grandi scaffali messi trasversalmente. Quegli scaffali dovevano contenere, se George ricordava bene, quindicimila volumi: quasi tutto ciò che d'importante era stato pubblicato sui nebulosi argomenti della magia, delle ricerche metapsichiche, della divinazione, della telepatia, oltre che sulla serie completa di quei fenomeni elusivi raccolti alla rinfusa nella categoria della parafisica. Mania molto strana, quella della metapsichica, nell'èra della logica. Presumibilmente Rupert se l'era scelta come forma di evasione.

George percepì l'odore nell'attimo in cui mise piede in biblioteca. Un odore non molto forte, ma penetrante, e non tanto sgradevole quanto sfuggente a ogni analisi. Anche Jean l'aveva sentito e corrugò la fronte nello sforzo di identificarlo. Acido acetico, pensò George, ecco l'odore che più gli si avvicina, ma c'è anche un altro elemento, si direbbe...

La biblioteca terminava in una nicchia, dove c'era appena lo spazio per un tavolino, due poltrone e un paio di sgabelli imbottiti. Presumibilmente quello era il rifugio di Rupert. Ma anche adesso c'era gente nella nicchia. Qualcuno che leggeva in una luce eccezionalmente bassa. Jean soffocò un'esclamazione e afferrò George per un braccio. Una reazione giustificabile: un conto era vedere un'immagine teletrasmessa e un altro trovarsi di fronte alla realtà. Anche George, che difficilmente si stupiva, questa volta non riuscì a restare impassibile.

«Spero di non avervi disturbato...» disse educatamente. «Non avevamo la più pallida idea che ci fosse qualcuno. Rupert non ci aveva detto...»

Il Superno abbassò il libro, li guardò attentamente, poi riprese a leggere. Non c'era niente di scortese in quel comportamento, dato che il Superno poteva leggere, conversare e probabilmente fare parecchie altre cose contemporaneamente. Tuttavia, agli occhi di un essere umano era un atteggiamento da schizofrenico.

«Mi chiamo Rashaverak» disse il Superno, cortesemente. «Temo di non apparirvi troppo socievole, ma è molto difficile sottrarsi al fascino della biblioteca di Rupert.»

Jean riuscì a soffocare una risatina nervosa. Aveva notato che l'inatteso compagno leggeva alla media di circa una pagina ogni due secondi. Non aveva il minimo dubbio che il Superno assimilasse compiutamente ogni parola, e si chiese se potesse leggere un libro con ogni occhio. Senza contare, naturalmente, continuò a pensare con una punta di malizia, che potrebbe anche imparare il metodo braille e così leggere anche con le dita, come i ciechi... L'immagine che ne risultò era troppo comica per non dare luogo a inconvenienti, per cui Jean cercò di evitare il guaio gettandosi a capofitto nella conversazione. Dopo tutto, non era una cosa di tutti i giorni poter scambiare due chiacchiere con uno dei padroni della Terra.

George la lasciò chiacchierare, dopo le debite presentazioni, augurandosi che sua moglie non si lasciasse sfuggire qualche osservazione poco opportuna. Come Jean, era la prima volta che vedeva un Superno in carne ed ossa. Sebbene essi si mescolassero ufficialmente con funzionari governativi, scienziati e altri, non aveva mai sentito dire che qualcuno avesse partecipato a una festa privata. Si poteva forse dedurre che quella festa non era così privata come poteva sembrare. E il fatto che Rupert possedesse un apparecchio solitamente riservato ai Superni era un altro indizio, e George cominciò a domandarsi "Che Cosa Esattamente Ci Fosse Di Nuovo". Si riservò di chiederlo a Rupert, non appena avesse potuto prenderlo in disparte.

Dato che le poltrone erano troppo piccole per lui, Rashaverak si era seduto sul pavimento e sembrava perfettamente a suo agio. La sua testa sì trovava così a soli due metri dal pavimento e George ebbe la stupenda occasione di studiare biologia extraterrestre. Purtroppo, dato che conosceva ben poco anche di biologia terrestre, non poté imparare molto di più di ciò che già sapeva. Soltanto quell'odore acidulo ma tutt'altro che sgradevole, gli riusciva nuovo. Si domandò quale odore avessero gli umani per i Superni e sperò per il meglio.

Non c'era niente di realmente antropomorfico in Rashaverak. Però George si rese conto che, visti in distanza, da selvaggi ignoranti, atterriti, i Superni avevano potuto benissimo essere scambiati per uomini alati, dando così origine al ritratto convenzionale del Diavolo. Ma, a una distanza ravvicinata come quella, gran parte dell'illusione scompariva.

Le ali di Rashaverak erano ripiegate in modo che George non poteva vederle bene, ma la coda, che pareva un tubo di gomma corazzato, gli stava avvoltolata ordinatamente sotto il corpo. Il famoso ciuffo sulla punta non era tanto un ferro di lancia, quanto un largo e piatto rombo. Suo scopo, come si riteneva generalmente, era di dare maggiore stabilità al volo, come le penne caudali d'un uccello. Da pochi dati e supposizioni del genere, gli scienziati erano giunti alla conclusione che i Superni provenissero da un pianeta caratterizzato da bassa gravità e atmosfera densissima.

La voce di Rupert rimbombò a un tratto da un altoparlante nascosto.

«Jean! George! Dove diavolo vi siete cacciati? Scendete. Gli altri cominciano a mormorare!»

«Sarà meglio che scenda anch'io» disse Rashaverak, riponendo il volume in uno scaffale. Lo fece con estrema facilità, senza muoversi dal pavimento, e George notò per la prima volta che l'essere aveva due pollici, opponibili, con cinque dita fra loro. "Non vorrei studiare aritmetica secondo un sistema basato sul quattordici" pensò George.

Rashaverak in piedi offriva uno spettacolo imponente, e quando il Superno dovette chinarsi per non battere la testa contro il soffitto, fu alquanto evidente che se pure erano desiderosi di mescolarsi agli uomini, gli Eccelsi avevano molte difficoltà di ordine pratico da superare.

Parecchi altri aerei di invitati erano giunti in quella mezz'ora, e la sala, ora, rigurgitava. L'arrivo di Rashaverak complicò la situazione, perché tutti quelli che si trovavano nelle sale attigue accorsero per vederlo da vicino. Rupert era ovviamente compiaciuto della sensazione prodotta dal suo ospite eccezionale. Quanto a Jean e George, passarono completamente inosservati, soprattutto perché si trovavano dietro il Superno.

«Vieni qua, Rashy» urlò Rupert. «Voglio farti conoscere un po' di amici. Siedi su questo divano, così la smetterai di raschiarmi il soffitto.»

Rashaverak, la coda buttata su una spalla, si mosse attraverso la sala come un rompighiaccio che tenti la via della banchisa. Quando si sedette accanto a Rupert, la sala parve ridiventare più vasta, e George emise un sospiro di sollievo.

«Mi viene un attacco di claustrofobia, ogni volta che lo vedo in piedi. Chissà come avrà fatto Rupert ad accaparrarselo... la festa si annuncia interessante, una volta tanto.»

«Hai sentito come Rupert lo tratta confidenzialmente, e in pubblico, per giunta? Ma il Superno non ha avuto l'aria di offendersi. È tutto molto strano.»

«Io invece scommetto che il Superno se l'è avuta a male. Il guaio di Rupert è la sua mania di esibizionismo e la sua mancanza di tatto. E questo mi fa venire in mente alcune delle domande che gli hai rivolto!»

«Per esempio?»

«Per esempio: "Da quanto tempo siete qui fra noi?", "Andate d'accordo col Supercontrollore Karellen?", "Vi trovate bene sulla Terra?". Ti assicuro, tesoro, non si parla ai Superni con quel tono!»

«Non vedo perché. È ora che qualcuno cominci!»

Prima che la discussione degenerasse, furono avvicinati dagli Shoenberger e, rapidissima, avvenne la scissione dell'atomo: le due donne se ne andarono in una direzione per parlare con comodo della signora Boyce, gli uomini in un'altra per fare esattamente la stessa cosa, ma da un diverso punto di vista.

«Secondo me» disse George, invidioso «è una donna troppo superiore a Rupert. Un'unione così non può durare. Lei si stancherà molto presto di lui.» Pensiero che parve sollevarlo straordinariamente.

«Non t'illudere! Oltre a essere quella splendida donna che è, Maia è anche molto a modo. Era tempo che qualcuno s'incaricasse di far mettere la testa a posto a Rupert, e Maia è proprio la donna che ci voleva.»

Rupert e Maia erano seduti accanto a Rashaverak, a ricevere gli ospiti. Di rado le feste di Rupert avevano un punto focale. Di solito si formavano una mezza dozzina di gruppi autonomi intenti a conversazioni loro proprie. Questa volta, però, tutti gli ospiti gravitavano attorno a un preciso centro d'attrazione. George si rammaricò per Maia: quella sarebbe dovuta essere la sua giornata, ma Rashaverak l'aveva in parte eclissata.

«Senti» riprese George, addentando una tartina «sai dirmi come ha fatto Rupert a mettere le mani su di un Super? Non ce ne ha nemmeno parlato, nell'invito.»

Benny si mise a ridere.

«È un'altra delle sue piccole sorprese. Sarà meglio che tu lo chieda direttamente a lui, come ha fatto. Ma questa non è la prima volta, comunque, che accade una cosa del genere. Karellen, per esempio, ha partecipato a ricevimenti della Casa Bianca e di Buckingham Palace, e...»

«Ma è diverso! Rupert è solo un privato cittadino!»

«Può darsi che Rashaverak non sia che un Super di basso rango. Ma chiedilo a loro.»

«Lo farò» disse George «appena mi sarà possibile prendere Rupert da parte.»

«Allora dovrai aspettare un pezzo.»

Benny aveva ragione, ma la festa si andava riscaldando, e non fu molto difficile avere pazienza. La paralisi generale provocata dalla comparsa di Rashaverak si era infine dissolta. C'era ancora un gruppetto di persone intorno al Superno, ma altrove si stava verificando la solita frammentazione, e tutti si comportavano normalmente. Senza voltare la testa, George poteva vedere un famoso produttore cinematografico, un poeta di un certo interesse, un matematico, due attori, un fisico nucleare, il direttore di un giardino zoologico, il direttore di un settimanale, un professore di statistica del Consiglio Bancario Mondiale, un virtuoso del violino, un archeologo e un astrofisico. Non c'erano altri esponenti della professione di George, scenografo della TV, cosa che non gli dispiacque, dato che non aveva voglia di parlare di lavoro.

Finalmente poté cogliere di sorpresa Rupert in cucina mentre sperimentava nuove misture. Era un peccato strapparlo al suo paradiso per riportarlo bruscamente sulla Terra, ma quando era necessario, George sapeva essere spietato.

«Senti, Rupert» cominciò, sedendosi sull'angolo del tavolo «mi pare che tu ci debba qualche spiegazione.»

«Mm» fece Rupert, assaporando il gusto della miscela. «Forse un po' troppo gin, mi pare...»

«Non scantonare e non fare finta di non essere più in condizioni di capire, perché so benissimo che non sei ancora ubriaco. Allora, da dove salta fuori il tuo amico Superno e che cosa ci fa qui?»

«Ma come, non te l'ho detto?» disse Rupert. «Credevo di avere spiegato tutto. Si vede che non c'eri quando... Ma già, eri in biblioteca.» Si mise a ridacchiare in un modo che a George parve offensivo. «È proprio la biblioteca che ha fatto capitare qui Rashy.»

«Incredibile!»

«Perché?»

George tacque un momento rendendosi conto che a quel riguardo ci voleva un po' di tatto: Rupert andava molto orgoglioso della sua raccolta.

«Be', quando si pensa a tutto quello che i Superni possono insegnare in campo scientifico, ci si stupisce un po' che s'interessino ai fenomeni psichici, parafisici, metapsichici e a tutto questo genere di sciocchezze, no?»

«Sciocchezze o no» rispose Rupert «si interessano alla psicologia umana, e io ho alcuni volumi che possono insegnare loro parecchie cose. Proprio poco tempo prima che io mi trasferissi qui, un vice Sotto Super o un vice Super-Sottocontrollore si è messo in contatto con me per chiedermi in prestito i miei cinquanta volumi più rari. Pare che uno dei bibliotecari della biblioteca del British Museum gli avesse fatto il mio nome. Naturalmente, puoi immaginare cosa gli ho risposto.»

«No, non lo immagino.»

«Gli ho detto con tutta la cortesia possibile che mi ci erano voluti vent'anni per raccogliere la mia biblioteca. Felicissimo che volessero consultare i miei volumi, ma dovevano venire qui se volevano leggerli. Allora ecco comparire Rashy, che da quel momento procede alla media di venti volumi al giorno. Non so che cosa pagherei per sapere a che gli serve tutto quello che legge.»

George ci pensò sopra, alla fine si strinse nelle spalle, deluso.

«Francamente» disse «la mia stima per i Superni scende di parecchi gradi. Credevo che avessero di meglio da fare.»

«Sei il solito incorreggibile materialista! Non credo che Jean concordi con le tue idee. Ma anche dal tuo tanto pratico punto di vista, la cosa è sensata. Sono convinto che ti metteresti a studiare le superstizioni di ogni razza primitiva con la quale dovessi avere a che fare, non è così?»

«Direi di sì» rispose George, non del tutto convinto. Il tavolo non era un sedile comodo, e lui si alzò. Rupert aveva finito ora di rimescolare le sue misture e si accingeva con aria soddisfatta a servirle ai suoi ospiti. «Ehi!» protestò George. «Prima di sparire devi rispondere a un'altra domanda. Come hai fatto ad avere quella specie di telecamera rice-trasmittente con cui hai cercato di spaventarci?»

«S'è trattato di mercanteggiare un po', ecco tutto. Avevo fatto notare che sarebbe stato utile quell'aggeggio per un lavoro come il mio, e Rashy ha avanzato la proposta a chi di dovere.»

«Perdona la mia ottusità, ma qual è il tuo nuovo lavoro? Immagino che abbia a che fare più o meno con gli animali.»

«Esattamente. Io sono un superveterinario. La mia condotta ricopre circa diecimila chilometri quadrati di giungla, e siccome i miei pazienti non vogliono venire da me, sono io che devo andare a scovarli.»

«Un lavoro sfibrante, no?»

«Naturalmente, non conviene preoccuparsi della minutaglia. Ma soltanto di leoni, elefanti, rinoceronti, e così via. Tutte le mattine metto i controlli per una quota di cento metri, mi siedo davanti allo schermo e me ne vado a esplorare i dintorni; appena trovo qualche creatura bisognosa di me, salto sull'aereo e mi auguro che il mio stile di buon samaritano abbia i suoi risultati. Alle volte, si hanno delle sorprese non molto piacevoli. Leoni e simili sono facili a curarsi; ma cercare di pungere un rinoceronte dall'alto con una freccia anestetica è un'impresa titanica.»

«Rupert!» chiamò qualcuno dalla sala accanto.

«Dio, guarda che cosa mi hai combinato! Mi hai fatto dimenticare i miei ospiti. Là, guarda, prendi quel vassoio. Quelli sono i bicchieri col vermut... non voglio confonderli con gli altri.»

Fu poco prima del tramonto che George riuscì a svignarsela verso la terrazza sul tetto. Per molte buone ragioni, aveva una lieve emicrania, per cui non gli era parso vero sottrarsi al baccano e alla confusione che regnavano da basso. Jean, ballerina infinitamente migliore di lui, aveva ancora l'aria di divertirsi enormemente e non era voluta uscire. George, che grazie all'alcol ingerito si sentiva eroticamente sentimentale, c'era rimasto male e aveva deciso di smaltire il malumore in pace, sotto le stelle. Si giungeva alla terrazza sul tetto mediante la scala mobile fino al primo piano e poi arrampicandosi sulla scala a chiocciola che girava intorno alla tubatura dell'impianto per l'aria condizionata, uscendo infine per una porta. L'aereo di Rupert era parcheggiato a un capo della terrazza: la zona centrale era tenuta a giardino, un giardino che dava già a vedere di essere incolto, mentre il resto non era che una piattaforma-osservatorio con alcune sedie a sdraio. George si lasciò cadere su una delle sedie e si guardò intorno con occhio da sovrano. Si sentiva il dominatore di tutto ciò su cui posava lo sguardo.

Le stelle che cominciarono a spuntare da tutte le parti con tanta fretta appena il sole fu del tutto scomparso gli erano completamente sconosciute. Cercò la Croce del Sud, ma non la trovò. Sebbene sapesse ben poco di astronomia e fosse in grado di identificare solo tre o quattro costellazioni, pure quell'assenza di configurazioni familiari gli riuscì stranamente penosa. Come erano penose le urla che provenivano dalla giungla, che ad un tratto sembrava essersi fatta vicina in modo preoccupante. "Basta con quest'aria fresca" pensò George. "Ora me ne torno da basso, prima che un vampiro, o qualche altra creatura altrettanto gradevole, venga a indagare su questa terrazza."

Stava già per dirigersi verso la porta, quando un altro invitato ne emerse. Si era fatto così buio, ora, che George non poté vedere chi fosse. «Ehi, laggiù!» gridò. «Ne avete avuto abbastanza anche voi?»

Il suo invisibile compagno si mise a ridere. «Rupert sta proiettando i suoi film. Io li ho già visti tutti» disse.

«Una sigaretta?» offrì George.

«Grazie.»

Alla fiamma dell'accendino - George aveva la mania di quelle anticaglie - riconobbe finalmente l'altro invitato, un giovane negro, straordinariamente bello. Gliene avevano detto il nome, ma George si era fatto un dovere di dimenticarlo subito, assieme a quelli degli altri venti sconosciuti che gli erano stati presentati. Tuttavia, c'era qualcosa di familiare nella fisionomia del giovane, e George a un tratto intuì la verità.

«Non credo che ci siamo conosciuti molto a fondo» disse «ma non siete forse il nuovo cognato di Rupert?»

«Esattamente: sono Jan Rodricks. Tutti dicono che Maia e io ci assomigliamo moltissimo.»

George si domandò se non dovesse esprimere a Jan la sua commiserazione per quel parente di recentissima acquisizione, ma pensò che fosse meglio lasciare il poveretto libero di scoprirlo da sé. Del resto, poteva anche darsi che questa volta Rupert si decidesse a mettere la testa a posto.

«Sono George Greggson» disse. «È la prima volta che venite a una delle famose feste di Rupert?»

«Sì. C'è da conoscere un mucchio di gente nuova in occasioni come questa.»

«E non soltanto di questa Terra» soggiunse George. «È stata la prima occasione che mi si è presentata di conoscere personalmente un Superno.»

L'altro esitò un attimo prima di rispondere, e George ebbe la sensazione di aver colpito un punto debole. Ma la risposta non rivelò niente.

«Nemmeno io ne avevo mai visto uno prima d'ora, tranne che alla TV.»

A questo punto la conversazione cominciò a languire, e dopo un istante George si accorse che Jan aveva voglia di starsene solo. L'aria si faceva fredda, comunque, per cui, scusatosi, scese a raggiungere gli altri.

La giungla taceva, ora. Nell'appoggiarsi con le spalle alla presa d'aria dell'impianto di condizionamento, Jan non udì altro suono se non il ronzio lieve della casa che respirava con i suoi polmoni meccanici. Il giovane si sentiva malinconico e solo, ed era così che voleva essere. Ma si sentiva anche profondamente deluso e scoraggiato, che era proprio ciò che non voleva assolutamente essere.

 

7

 

Nessuna Utopia potrà mai dare soddisfazione a tutti, in ogni momento. A misura che le condizioni materiali migliorano, gli uomini elevano in proporzione le loro aspirazioni e non si accontentano più di poteri e beni che un tempo sarebbero parsi loro al di là di ogni speranza più audace. E anche quando il mondo esterno ha concesso tutto quello che può, rimangono pur sempre le esigenze della mente e i desideri nostalgici del cuore.

Jan Rodricks, sebbene apprezzasse molto di rado la sua fortuna, in un'epoca precedente sarebbe stato ancora più scontento e insoddisfatto. Un secolo prima il colore della sua pelle sarebbe stato un ostacolo tremendo. Oggi, non aveva più nessun significato. Passato anche il senso di superiorità, venuto come reazione, che i negri avevano trovato nel ventunesimo secolo. La parola "negro" non era più tabù tra persone educate e veniva usata da chiunque senza il minimo impaccio. Non aveva più contenuto emotivo di quanto non ne potessero avere etichette da repubblicano o metodista, conservatore o liberale.

Il padre di Jan era stato un affascinante scozzese, irrequieto e irresponsabile, che si era fatto un certo nome come guaritore di professione. La sua morte, alla precoce età di quarantacinque anni, era stata provocata dall'eccessivo consumo del più celebrato prodotto del suo Paese.

La signora Rodricks, ancora viva e vegeta, insegnava teoria delle probabilità all'Università di Edimburgo. Era una caratteristica dell'estrema mobilità del genere umano ai primordi del XXI secolo, che la signora Rodricks, la quale era d'un nero ebano, fosse nata in Scozia, mentre il suo biondo marito senza patria fissa aveva passato quasi tutta la sua vita ad Haiti. Maia e Jan non avevano mai avuto una casa loro, ma avevano sempre fatto la spola tra le famiglie paterna e materna come due traghetti. La cosa era stata molto divertente, ma non aveva certo contributo a temperare l'instabilità di carattere che entrambi avevano ereditato dal padre.

A ventisette anni, Jan aveva ancora parecchi anni di vita universitaria davanti a sé prima di poter pensare seriamente alla carriera. Aveva superato i primi esami senza sforzo, seguendo un programma di studi che un secolo prima sarebbe parso molto strano. Si interessava di fisica, matematica, filosofia e musica, ed era un pianista di molto talento.

In un triennio contava di laurearsi in fisica applicata, con l'astronomia come disciplina sussidiaria. Tutto ciò avrebbe sottinteso un'intensa attività, ma Jan se la prendeva alla leggera. Studiava presso l'istituto più splendidamente situato nel mondo: l'Università di Città del Capo, ai piedi della Table Mountain.

Non aveva preoccupazioni materiali, eppure si sentiva scontento, angustiato e non vedeva rimedio alla sua condizione. A peggiorare questo stato di cose, c'era la felicità di Maia, che sottolineava la causa principale della malinconia di Jan.

Jan soffriva ancora di quella romantica illusione, causa di tanta infelicità e tanta poesia, secondo cui un uomo non ha che un solo vero amore in vita sua. Molto più tardi di quanto non accadesse alla maggioranza dei giovani, Jan aveva dato il suo cuore per la prima volta a una ragazza nota più per la sua bellezza che per la sua costanza. Rosita Tsien affermava di discendere dalla dinastia Manciù, e non mentiva. Aveva infatti ancora molti sudditi, soprattutto nelle Facoltà di Scienze dell'Università. Jan era caduto prigioniero della delicata bellezza di Rosita, e l'idillio si era protratto abbastanza a lungo da rendere più doloroso il finale. Lui non riusciva a capire che cosa avesse fatto crollare tutto. Naturalmente gli sarebbe passata, come era successo ad altri, ma per il momento Jan trovava insopportabile la vita.

L'altra sua causa di rodimento era meno facilmente rimediabile perché connessa al peso che il dominio dei Superni esercitava sulle sue aspirazioni. Jan era un romantico non soltanto col cuore ma anche col cervello. Come molti altri giovani, dopo la conquista dello spazio, aveva lasciato che sogni e fantasia vagassero per gli inesplorati oceani del cosmo.

Un secolo prima, l'uomo aveva messo il piede sulla scala che avrebbe potuto portarlo alle stelle. Ma proprio in quell'istante, la porta dei pianeti gli era stata chiusa in faccia. I Superni avevano imposto pochi divieti assoluti su alcuni aspetti delle attività umane (quella bellica era stata forse la più importante), ma le ricerche nel campo dell'astronautica erano virtualmente cessate. La sfida portata dalla scienza dei Superni era troppo grande. Almeno per il momento, l'uomo, scoraggiato, si era rivolto ad altre attività. Non valeva la pena di evolvere razzi sempre più perfetti, quando i Superni avevano mezzi di propulsione infinitamente superiori, basati su principi di cui gli uomini non avevano mai nemmeno avuto sentore.

Poche centinaia di uomini avevano visitato la Luna, allo scopo di stabilirvi un osservatorio astronomico. Avevano viaggiato come passeggeri in una piccola astronave concessa dai Superni, e con motori a razzo. Era ovvio che si poteva apprendere ben poco dallo studio di un aeromobile così antiquato.

L'uomo, quindi, era ancora prigioniero del suo pianeta. Un pianeta molto più giusto e saggio, ma anche molto più piccolo di quel che non fosse stato un secolo prima. Abolendo guerra, miseria e malattie, i Superni avevano anche abolito l'avventura.

La luna nascente cominciava a tingere il cielo orientale d'un pallido riflesso latteo. Lassù, come Jean sapeva bene, c'era la base principale dei Superni, in fondo all'immenso cratere di Plutone. Quantunque le astronavi addette ai rifornimenti dovessero essere andate e venute da quella base da oltre settant'anni, soltanto durante la vita di Jean ogni dissimulazione era stata abbandonata e i Superni avevano effettuato arrivi e partenze in piena vista. Nel telescopio con cinque metri d'apertura, le ombre delle grandi astronavi si potevano vedere nitidamente quando, al mattino e alla sera, il sole le allungava per miglia e miglia sulle piane lunari. Siccome tutto quello che i Superni facevano era di immenso interesse per il genere umano, era cominciata una costante vigilanza dei loro arrivi e delle loro partenze, e così si poteva avere un idea delle loro operazioni anche se non dei motivi che le determinavano. Una di quelle grandi ombre era svanita qualche ora prima. Ciò significava, come Jan sapeva, che in un punto dello spazio presso la Luna un'astronave dei Superni attendeva immobile, eseguendo gli ordini che le erano stati impartiti, prima d'iniziare il viaggio per la lontana patria sconosciuta.

Lui non aveva mai visto una di quelle astronavi che ripartivano per il loro pianeta lanciarsi verso le stelle. Se le condizioni di visibilità erano buone, lo spettacolo era visibile da una buona metà del globo, ma Jan non aveva mai avuto fortuna. Non si poteva mai prevedere quando sarebbe avvenuto il decollo, e del resto i Superni non davano nessuna pubblicità all'evento. Jan decise di aspettare altri dieci minuti, prima di scendere a raggiungere gli altri.

E quella che cos'era? Niente altro che una meteora, che scivolava mollemente giù dalla costellazione di Eridano. Jan si rilassò, scoprì che la sigaretta si era spenta e ne accese un'altra.

Ne aveva fumato circa metà, quando, a mezzo milione di chilometri di distanza, si accese l'iperpropulsione. Dal cuore della radiosità lunare, una minuscola favilla cominciò a salire verso lo zenit. Dapprima il suo movimento fu quasi impercettibile, ma guadagnava velocità a ogni secondo. Salendo, accrebbe il suo fulgore, poi, bruscamente, si affievolì fino a scomparire. Un istante dopo la favilla ricomparve, aumentando in fulgore e velocità. Ora vivida ora fioca secondo un suo ritmo, ascendeva sempre più rapidamente nel cielo, tracciando una fluttuante linea di luce in mezzo alle stelle. Anche ignorandone la vera distanza, l'impressione di velocità che se ne aveva era da mozzare il fiato; sapendo poi che l'astronave in partenza si trovava nello spazio al di là della Luna, la mente era colta da vertigine all'idea delle velocità e delle forze che quel moto implicava.

Quello che ora vedeva, si disse Jan, era un sottoprodotto senza importanza di quelle forze. L'astronave stessa era invisibile, già molto più innanzi della luce ascendente. Come un aviogetto si lascia dietro una scia di vapori, così la nave dei Superni lanciata verso l'infinito aveva la sua scia particolare. La teoria generalmente accettata, e non sembrava esservi dubbio della sua fondatezza, era che l'immensa accelerazione dell'iperpropulsione causasse una distorsione locale nello spazio. Ciò che Jan stava ora vedendo era solo la luce delle stelle lontanissime, raccolta e messa a fuoco della sua retina appena le condizioni favorevoli lungo la scia dell'astronave lo permettevano. Era una prova visibile della relatività: la deviazione dei raggi luminosi nelle vicinanze di un colossale campo gravitazionale.

La luce fantomatica cominciava ad affievolirsi. Adesso non era più che una minuscola striatura vaga, che puntava verso il cuore della costellazione della Carena, come Jan sapeva che avrebbe fatto. Il mondo dei Superni sembrava essere in quella direzione, approssimativamente, ma poteva gravitare intorno a una qualunque delle migliaia di stelle che si addensavano in quel settore dello spazio. Non c'era modo di stabilire la sua distanza dal Sistema Solare.

Non c'era più niente, ora. Sebbene l'astronave avesse appena cominciato il viaggio, l'occhio umano non poteva vedere più niente. Ma nella memoria di Jan il ricordo di quell'itinerario luminoso continuava ad ardere, fascio di luce lanciato da un faro che non si sarebbe mai affievolito finché lui avesse avuto in sé ambizioni e desideri.

 

La festa era finita. Quasi tutti gli invitati erano ripartiti a bordo dei loro aerei e sciamavano ora verso i quattro angoli della Terra, tranne qualche eccezione.

Una era Norman Dodsworth, il poeta, che si era ubriacato vergognosamente, ma aveva almeno avuto il buon gusto di svenire prima di dare spettacolo. Con scarsa delicatezza, l'avevano sdraiato all'aperto con la speranza che qualche iena gli desse un rude risveglio. Stando così le cose, era come se Dodsworth non ci fosse affatto.

Tra gli altri rimasti erano George e Jean. Idea che non era stata affatto di George, il quale aveva una gran voglia di tornarsene a casa.

Era ovvio che Rupert aveva in serbo qualche sorpresa, probabilmente d'accordo con Jean. George si rassegnò di malumore a qualunque sciocchezza stessero per propinargli.

«Ho tentato di tutto prima di fermarmi su questa» disse Rupert orgogliosamente. «Il problema fondamentale è quello di ridurre l'attrito allo scopo di ottenere la massima libertà di movimento. L'antiquata apparecchiatura a base di tavolo lucido e levigato col suo bravo bicchiere sopra non è tanto male, ma è in uso da secoli, ormai, e io ero sicuro che la scienza moderna poteva trovare di meglio. Ed ecco il risultato. Avvicinate pure le sedie... davvero non te la senti di unirti a noi, Rashy?»

Il Superno parve esitare per una frazione di secondo. Quindi scosse la testa. Avevano forse imparato quel gesto sulla Terra? pensò George.

«No, grazie» rispose. «Preferisco stare a guardare. Un'altra volta, forse.»

«Benissimo... c'è rutto il tempo che vuoi, qualora dovessi cambiare idea più tardi.»

"Ah, bene!" pensò George, più nero che mai, guardando l'orologio.

Rupert aveva radunato il gruppetto di amici attorno a un tavolo piccolo ma massiccio e perfettamente rotondo. Il piano, di plastica, era un coperchio molto sottile, che egli sollevò per mettere in mostra un mare scintillante di cuscinetti a sfere strettamente connessi. L'orlo lievemente rilevato del tavolo impediva alle sfere di rotolare via, e George non riuscì a capire a che cosa servissero. Le centinaia di punti di luce riflessa formavano un disegno ipnotico, affascinante, sì che George ne ebbe la mente confusa.

Mentre gli altri avvicinavano le sedie, Rupert allungò un braccio sotto il tavolo, prese un disco del diametro di dieci centimetri circa e lo appoggiò sulla superficie dei cuscinetti a sfera.

«Ecco qua» disse. «Appoggiate la punta delle dita su questo disco e vedrete che si muoverà senza fare resistenza.»

George si mise a osservare disco e tavolo con profonda diffidenza. Vide che le lettere dell'alfabeto erano disposte a intervalli regolari, anche se non in base a un preciso ordine di successione, lungo la circonferenza del tavolino, Inoltre c'erano i numeri dall'1 al 9, sparsi alla rinfusa tra le lettere, e due cartoncini con le parole "sì" e "no", l'uno di fronte all'altro, ai margini del tavolino.

«A me sembra un gioco di bussolotti» mormorò. «Mi stupisce che ci sia gente che lo prenda sul serio ancora oggi.» Si sentì meglio, dopo essersi alleggerito con questa piccola protesta rivolta tanto a Jean quanto a Rupert. Rupert si atteggiava a uomo di larghe vedute, ma tutt'altro che credulo, con soltanto un distaccato interesse scientifico per fenomeni del genere, Jean, d'altra parte... George, a volte era un po' preoccupato nei suoi riguardi. Lei sembrava convinta che ci fosse qualcosa di molto vero in quei giochetti di telepatia e di preveggenza.

Fu solo dopo avere espresso la sua osservazione che George si accorse che la protesta toccava anche a Rashaverak. Lanciò nervosamente un'occhiata nella sua direzione, ma il Superno non dimostrò nessuna reazione. La qual cosa, com'era naturale, non significava assolutamente nulla.

Ognuno aveva preso il suo posto. Nel senso delle lancette dell'orologio, sedevano Rupert, Maia, Jan, Jean, George e Benny Shoenberger. Ruth Shoenberger sedeva discosta, al di fuori del circolo, con in mano un quaderno. Ruth aveva fatto qualche obiezione a partecipare alla seduta, la qual cosa aveva indotto Benny a osservare in tono sarcastico che al mondo c'era ancora gente che prendeva sul serio il Talmud. Comunque, Ruth pareva dispostissima a fungere da segretaria.

«Ora» disse Rupert «vi prego di ascoltarmi attentamente. A beneficio degli scettici come George, sarà bene mettere molto in chiaro subito questo: ci sia o non ci sia un elemento soprannaturale in questa faccenda, vi dico che la cosa funziona. Personalmente ritengo che si possa dare una spiegazione di carattere strettamente meccanico. Quando noi poniamo la punta delle dita sul disco, anche se possiamo tentare d'influire sui suoi movimenti, il nostro subcosciente comincia a farci degli scherzi. Ho analizzato moltissime sedute di questo genere e non ho mai trovato risposte che qualcuno del gruppo potesse non sapere o non indovinare... anche se spesso nessuno ne era consapevole. Ad ogni modo, vorrei eseguire l'esperimento in queste circostanze, diremo così, peculiari.»

La Circostanza Peculiare se ne stava seduta a osservarli in silenzio, ma indubbiamente non con indifferenza. George si chiese che cosa pensasse esattamente Rashaverak di simili prodezze. Erano forse, le sue, le reazioni di un antropologo che osserva qualche primitivo rito religioso? Tutta la situazione era semplicemente grottesca, e George si sentì ridicolo come non gli era mai capitato di sentirsi in vita sua.

Se anche gli altri si sentivano ridicoli, non lo dimostrarono. Solo Jean era accesa in volto, eccitata; ma forse erano state le bevande alcoliche.

«Tutto a posto?» disse Rupert. «Bene.» Fece una pausa a effetto, quindi, senza rivolgersi a nessuno in particolare, domandò: «C'è forse qualcuno?»

Sotto le dita George sentì il disco vibrare. Non era sorprendente, data la pressione esercitata su di esso dalle sei persone della catena. Quindi il disco cominciò a scivolare lungo due curve, tracciando un piccolo otto, terminato il quale rimase immobile nel centro, da dove si era mosso.

«C'è qualcuno?» ripeté Rupert. E in un tono di più normale conversazione soggiunse: «Spesso bisogna aspettare da dieci minuti a un quarto d'ora, prima che si cominci. Ma alle volte...»

«Ssst!» fece Jean.

Il disco aveva ripreso a muoversi e ora stava percorrendo un grande arco oscillando fra i cartellini del "sì" e del "no". A fatica, George represse un sorriso sarcastico. Che cosa avrebbe dimostrato quel disco, pensò, se si fosse fermato davanti al no? Ricordò il vecchio scherzo: "Se ci sei batti un colpo, se non ci sei battine due!".

Ma il disco si fermò davanti al "sì", brevemente, poi ritornò al centro della tavola. In un certo senso pareva vivo, ora, vivo e in attesa di una nuova domanda. Nonostante tutto George cominciò a sentirsi impressionato.

«Chi sei?» "domandò Rupert.

Le lettere finirono compilate nettamente, a una a una, dal disco, senza la minima esitazione. Il piattello rotondo saettava qua e là per il tavolo come una cosa animata, spesso così veloce che George non riusciva a tenerci sopra le dita. Avrebbe potuto giurare che non contribuiva assolutamente al suo movimento; e, guardandosi intorno, rapidamente, non notò niente di sospetto sulla faccia dei suoi amici. Sembravano assorti e in attesa come lui stesso.

IOSONOTUTTI, compilò il piattello e tornò al suo punto di equilibrio.

«Io sono tutti» ripeté Rupert.

«Una risposta tipica. Evasiva e niente stimolante. Probabilmente significa che non c'è altra cosa, qui, all'infuori dell'effetto combinato delle nostre menti.» Tacque per qualche istante, evidentemente per scegliere la domanda successiva. Infine si rivolse all'aria ancora una volta.

«Hai un messaggio per qualcuno dei presenti?»

"No" rispose prontamente il disco.

Rupert si guardò intorno.

«Dobbiamo fare noi. A volte comunica di sua iniziativa, ma stavolta dobbiamo rivolgergli domande precise. C'è nessuno che voglia cominciare?»

«Pioverà domani?» scherzò George.

Immediatamente il piattello cominciò ad andare e venire nello spazio tra il "sì" e il "no".

«È una domanda futile» disse Rupert in tono di rimprovero. «C'è sempre la probabilità che piova in qualche zona e ci sia siccità in altre. Non bisogna fare domande che implichino ambiguità di risposta.»

George si sentì schiacciato e lasciò a qualche altro la domanda successiva.

«Qual è il mio colore preferito?» domandò Maia.

BLU, fu la risposta giusta.

«Esattissimo!»

«Questo non prova niente. Almeno tre persone presenti sanno la risposta» obiettò George.

«Qual è il colore preferito di Ruth?» domandò Benny.

ROSSO.

«È vero, Ruth?»

La segretaria alzò lo sguardo dal quaderno dove annotava domande e risposte.

«Sì. Ma Benny lo sa, e fa parte della catena.»

«Io non lo sapevo affatto» protestò Benny.

«Lo sapevi benissimo! Non so più quante volte te l'ho detto.»

«Ricordi del subconscio» mormorò Rupert. «Avviene spesso. Ma non possiamo fare qualche domanda un po' più intelligente, per favore? Ora che la seduta è cominciata così bene, non vorrei vederla finire in niente.»

Cosa strana, la stessa banalità del fenomeno cominciava a impressionare George. Era certissimo che la spiegazione non avesse niente a che vedere col mondo soprannaturale. Come aveva detto Rupert, il disco rispondeva semplicemente ai loro inconsci movimenti muscolari. Ma era il fatto in sé che sorprendeva e colpiva: lui non avrebbe mai creduto che si potessero ottenere risposte tanto pronte e precise. Una volta tentò di vedere se potesse influire sul piattello facendogli comporre il suo nome: riuscì a ottenere la G, ma fu tutto: il resto non aveva senso. Era virtualmente impossibile, decise, che una persona sola fosse in grado di tenere il disco sotto controllo a insaputa degli altri.

Dopo una trentina di minuti, Ruth aveva scritto oltre una decina di messaggi, alcuni dei quali molto lunghi. Vi figuravano ogni tanto errori di ortografia e anomalie grammaticali, ma in numero ridottissimo. Quale che fosse la spiegazione, George era convinto ora di non contribuire consapevolmente ai risultati. Più volte, mentre una parola era in fase di composizione, aveva creduto di prevedere la lettera successiva e perciò il significato del messaggio. Ma ogni volta il piattello si era poi diretto verso tutt'altra lettera, formando una parola del tutto inattesa. Spesso, infatti, l'intero messaggio, dato che non c'era soluzione di continuità tra una parola e l'altra, era totalmente privo di senso fino a quando non era ultimato e Ruth non lo aveva riletto.

Quell'esperienza dava a George l'impressione soprannaturale di essere in comunicazione con una mente autonoma, dotata di volontà sua propria. E nello stesso tempo non c'era una prova conclusiva né in un senso né nell'altro. Le risposte erano così banali, così ambigue! Che cosa si poteva tirar fuori per esempio, da: CREDERENELLUOMOLANATURAECONVOI?

Pure ogni tanto c'erano indizi di verità profonde, addirittura sconvolgenti: RICORDACHELUOMONONESOLOPRESSOLUOMOESISTEILPAESEDIALTRI.

Ma era una cosa naturale, che tutti sapevano: tuttavia non poteva forse il messaggio riferirsi ad altri che non i Superni?

George finì per cadere in preda al torpore. Era tempo, si disse assonnato, di riprendere la via del ritorno. Quell'esperimento era senza dubbio tale da rendere perplessi e curiosi di saperne di più, ma non sembrava portarli verso qualcosa di definitivo, e il troppo stroppia anche le cose buone. Guardò di sfuggita i compagni della catena. Benny aveva l'aria di pensarla come lui, Maia e Rupert avevano entrambi gli occhi lievemente vitrei, e Jean, be', Jean sembrava aver preso fin da principio la cosa troppo sul serio. La sua espressione preoccupò George; pareva quasi che avesse paura a smettere e nello stesso tempo temesse di andare avanti.

Restava soltanto Jan. George non era ancora riuscito a capire che cosa pensasse il giovane delle eccentricità del cognato. Jan non aveva fatto domande e non aveva mostrato sorpresa alle risposte date dal piattello. Sembrava studiare i movimenti del disco come se si trattasse semplicemente di un qualunque fenomeno scientifico.

Rupert si scosse dallo stato letargico nel quale gli sembrava di essere sprofondato.

«Facciamo ancora una domanda» disse «dopo di che potremo dichiarare la giornata conclusa. Voi, Jan, non avete ancora rivolto domande?»

Nello stupore generale, Jan non mostrò esitazione alcuna. Era come se il giovane avesse già deciso da tempo di fare la sua domanda e avesse aspettato l'occasione propizia. Lanciò una sola occhiata alla figura immobile di Rashaverak, poi domandò con voce chiara e ferma: «Quale stella è il sole dei Superni?»

Rupert soffocò un'esclamazione di sorpresa, Maia e Benny non ebbero reazioni.

Jean aveva chiuso gli occhi e sembrava addormentata. Rashaverak si era sporto in avanti così da poter vedere all'interno della catena da sopra le spalle di Rupert.

E il disco cominciò a muoversi.

Quando finalmente tornò allo stato di riposo, ci fu una breve pausa di silenzio.

Quindi Ruth domandò, con voce perplessa: «Che cosa significa NGS 549672?»

Ma non ottenne alcuna risposta, perché nello stesso istante George disse ansiosamente: «Chi mi dà una mano per Jean? Temo che sia svenuta.»

 

8

 

«Questo Boyce...» disse Karellen. «Ditemi tutto quello che sapete di lui.»

Il Supercontrollore non usò esattamente queste parole, e i pensieri sottintesi trascendevano di grati lunga questo significato. Un ascoltatore umano avrebbe al massimo udito un fiotto di suoni rapidamente modulati, non molto diversi da quelli di una trasmissione in alfabeto Morse fatta a grande velocità. Sebbene fossero stati registrati molti saggi dell'idioma Superno, la loro estrema complessità sfocava qualunque analisi. La velocità di trasmissione garantiva l'impossibilità, da parte di qualunque interprete che avesse anche assimilato il linguaggio, di stare alla pari con i Superni in una loro normale conversazione.

Il Supercontrollore della Terra, voltando le spalle a Rashaverak, guardava la fossa multicolore del Gran Canyon. A dieci chilometri circa, ma appena velati dalla distanza, i bastioni a terrazze erano esposti alla piena forza del sole. A centinaia di metri sotto le pendici ombreggiate sul cui ciglio Karellen stava ritto, un trenino a cremagliera scendeva lentamente a spirale nell'abisso della valle. Era strano, pensò Karellen, che tanti esseri umani cogliessero ancora qualunque occasione per comportarsi secondo usanze primitive. Potevano giungere sul fondo del canyon in una frazione del tempo impiegato dal trenino, se avessero voluto, e con maggiori comodità. Invece preferivano essere sballottati su binari che probabilmente erano pericolosi e pericolanti proprio come sembravano.

Karellen fece un gesto impercettibile con la mano. Il grande panorama sbiadì alla vista, lasciando soltanto una vacuità piena d'ombre che si perdeva in prospettiva. Le realtà del suo ufficio e della sua posizione gravarono ancora una volta sulle spalle del Supercontrollore.

«Rupert Boyce è un tipo alquanto curioso» rispose Rashaverak. «Professionalmente, è il responsabile sanitario della Principale Riserva Africana. È molto capace e ama il suo lavoro. Poiché deve sorvegliare parecchie migliaia di chilometri quadrati di territorio, ha uno dei quindici televisori panoramici che abbiamo distribuito a titolo di prestito, con le solite garanzie, naturalmente. È, tra parentesi, il solo apparecchio che abbia complete possibilità di proiezione. Boyce ha dimostrato di saperne fare buon uso, per cui gliele abbiamo lasciate tutte.»

«Qual è stata la tesi da lui sostenuta?»

«Voleva apparire a numerosi animali selvaggi in modo che si abituassero a vederlo e quindi non lo assalissero quando si fosse presentato materialmente a loro. La sua teoria si è dimostrata valida con quegli animali che si regolano più sulla vista che sull'odorato, sebbene io tema che prima o poi finisca sotto le zanne di qualche fiera. Ma c'è un'altra ragione per cui gli abbiamo concesso l'apparecchio.»

«L'apparecchio lo rendeva più prezioso come collaboratore?»

«Precisamente. Ho letto ora circa la metà della sua preziosa biblioteca. È stata una prova ben dura!»

«Non ne dubito» rispose Karellen, asciutto. «Avete scoperto qualcosa che ne valesse la pena, fra tutto quel ciarpame?»

«Sì. Undici casi di parziale sfondamento e ventisette probabili. Il materiale è tuttavia così tenue che non lo si può usare a fini d'esemplificazione. E l'evidenza dei fatti è sempre frammista inestricabilmente al misticismo, caratteristica inalienabile della mente umana.»

«E l'atteggiamento di Boyce qual è?»

«Si finge alquanto scettico, ma è chiaro che non avrebbe consumato tanto tempo ed energie in questo campo senza una profonda fede subconscia. L'ho sfidato e ha finito per ammettere che dovevo avere ragione. Il suo grande desiderio è scoprire una prova irrefutabile. Ecco perché fa quegli esperimenti, anche se ama far credere che sono specie di giochi.»

«Siete certo che non sospetti che il vostro interesse non è soltanto accademico?»

«Certissimo. Sotto molti aspetti, Boyce è notevolmente ottuso e semplice. Cosa che rende i suoi tentativi di ricerche, proprio in questo campo, quasi patetici. Non vedo la necessità di ricorrere a qualche azione speciale nei suoi riguardi.»

«Già. E in merito alla giovane donna che è svenuta?»

«Questo è il particolare più interessante di tutta la faccenda. Jean Morrei rappresentava quasi certamente il mezzo attraverso cui è pervenuta la comunicazione. Ma la donna ha ventisei anni: troppi per costituire un contatto diretto, a giudicare da tutte le nostre esperienze precedenti. Deve essere quindi qualcun altro strettamente connesso a lei. La conclusione è ovvia. Non possiamo avere più molti anni da attendere. Dobbiamo trasferirla alla Categoria Porpora: può anche darsi che sia il più importante essere vivente.»

«D'accordo. Provvederò io. E il giovane che ha fatto la domanda? Si tratta di un caso di pura curiosità, senza fondamento, o aveva qualche altro motivo?»

«È stato il caso a portarlo a quella riunione: la sorella aveva appena sposato Rupert Boyce. Non conosceva nessuno degli altri invitati. Sono sicuro che la domanda non era premeditata, ma piuttosto ispirata da condizioni insolite, oltre che dalla mia presenza. Date le premesse, non c'è da stupirsi del suo comportamento. Il suo grande sogno è l'astronautica: è segretario del Gruppo degli Astronauti all'Università del Capo e mira a fare di questo campo di studi lo scopo della sua vita.»

«La sua carriera dovrebbe essere interessante. In attesa, quale sarà, secondo voi, la sua linea di condotta e in che modo dovremo occuparci di lui?»

«Indubbiamente tenterà di controllare la notizia della nostra provenienza, appena potrà. Ma non c'è modo per lui di dimostrare la verità della risposta avuta: non solo, ma per l'origine stessa dell'informazione è molto difficile che si azzardi a renderla pubblica. Ma se anche lo facesse, in che cosa potrebbe, sia pur lontanamente, danneggiarci?»

«Farò vagliare con la massima cura i due elementi della situazione» rispose Karellen. «Sebbene l'assoluto divieto di rivelare la nostra base faccia parte delle direttive impartiteci, non vedo in che modo la notizia possa essere usata contro di noi.»

«È quello che penso anch'io. Tutto quello che Rodricks riuscirà a trovare sarà qualche informazione molto dubbia e di nessun valore pratico.»

«Così parrebbe, ma non lasciamoci dominare da un senso di eccessiva sicurezza. Gli esseri umani sono straordinariamente ingegnosi e spesso molto tenaci. Non è mai prudente sottovalutarli, e sarà interessante seguire la carriera di Rodricks. Dovrò riflettere ancora su questo argomento.»

 

Rupert Boyce non giunse mai realmente in fondo alla cosa. Dopo che i suoi ospiti se ne furono andati, con un tono un po' più dimesso e riservato del solito Rupert aveva spinto il tavolo nel suo angolo, con aria cogitabonda. La lieve nebbiolina alcolica inibì un'analisi approfondita di quanto era accaduto, e del resto gli stessi fatti già cominciavano ad apparirgli vaghi e sfumati. Aveva l'impressione generica che fosse accaduto qualcosa di molto importante ma indefinibile, e si chiese se fosse il caso di parlarne a Rashaverak. Ma poi si disse che sarebbe stata un'indiscrezione. Dopo tutto, era stato Jan a provocare quella situazione imbarazzante, e Rupert si rese conto di nutrire un vago risentimento verso il cognato. Ma era poi colpa di Jan? Anzi, era colpa di qualcuno? Con un certo senso di disagio, Rupert si ricordò che era stato il suo esperimento, quello a cui i suoi amici avevano partecipato. E decise, con buon esito, di non pensare più all'intera faccenda.

Avrebbe forse potuto fare qualcosa se si fosse ritrovata l'ultima pagina del quaderno di Ruth, ma, nella confusione, era scomparsa. Jan finse sempre di non saperne niente e ben difficilmente si sarebbe potuto accusare Rashaverak. Così, nessuno poté mai ricordare esattamente la parola che era stata compitata, se non che sembrava totalmente priva di senso...

 

Chi era rimasto più profondamente impressionato fu George Greggson, che non avrebbe più dimenticato il senso di terrore provato quando Jean gli si era afflosciata tra le braccia, trasformandosi da una piacevole compagna a un essere bisognoso di tenerezza e di affetto. Le donne sono sempre svenute, da tempi immemorabili, e non tutte le volte sul serio, ottenendo sempre dagli uomini l'effetto sperato. Ma lo svenimento di Jean, del tutto genuino, non avrebbe ottenuto di più se fosse stato calcolato perché, come lui si rese conto più tardi, George in quel momento prese la decisione più importante della sua vita. Jean era la donna che realmente contava per lui, nonostante le sue idee strampalate e i suoi ancora più strampalati amici. Non che George avesse intenzione di abbandonare del tutto Naomi, o Jiy, o Elsa, o... come diamine si chiamava quella?... Denise, ma era venuto il tempo di un rapporto più stabile e serio. Non dubitava che Jean fosse d'accordo con lui, dato che i suoi sentimenti erano stati manifesti fin dal primo giorno.

Ma dietro quella decisione c'era un altro fattore di cui per il momento George non era conscio. L'esperienza di quella sera aveva indebolito il suo disprezzo e il suo scetticismo per le cose che interessavano particolarmente Jean. Non l'avrebbe mai ammesso, ma era così, e questo aveva rimosso l'ultima barriera che si levava tra loro.

Guardò Jean che giaceva pallida, ma composta e serena, nella poltroncina inclinabile dell'aereo. Le tenebre si addensavano sotto di loro, le stelle sopra. George non aveva la più pallida idea di dove si trovassero e non gliene importava niente. Era affare del pilota automatico che li stava pilotando verso casa e li avrebbe fatti atterrare, come annunciava l'indicatore sul cruscotto, esattamente entro cinquantasei minuti.

Jean gli sorrise in risposta e dolcemente sciolse la mano dalla stretta delle dita di George.

«Solo per ristabilire la circolazione» disse, in tono di preghiera, soffregandosi le dita. «Vorrei che tu mi credessi, ora che ti assicuro di stare benissimo.»

«Allora, che cosa pensi che sia successo? Ricorderai, immagino, qualche cosa, non è vero?»

«No... c'è una lacuna nella mia memoria, il vuoto assoluto. Ho sentito Jan fare la domanda... e poi vi ho visto tutti che, agitatissimi, eravate chini su di me. Sono certa che deve essere stata una specie di trance. Del resto...»

Tacque per un istante e decise di non dire a George che quel genere di cose le era capitato altre volte. Sapeva come la pensava lui in merito e non intendeva sconvolgerlo maggiormente, o addirittura spaventarlo.

«Del resto... che cosa?» domandò George.

«Oh, niente. Sarei curiosa di sapere che cosa quel Superno ha pensato di tutta la faccenda. Forse gli abbiamo dato più di quanto si aspettasse.»

Jean fu scossa da un brivido e le si velarono gli occhi.

«Ho paura dei Superni, George. Non voglio dire che siano malvagi, né altre sciocchezze del genere. Sono certa che le loro intenzioni sono eccellenti e che fanno ciò che ritengono ci giovi di più, ma vorrei sapere quali sono i loro piani.»

George si mosse a disagio.

«È quello che l'umanità si chiede da quando sono comparsi sul nostro pianeta» rispose. «Ce lo diranno appena saremo abbastanza maturi per saperlo, e, a dirti la verità, io non sono molto curioso. Senza contare che ho cose più importanti a cui pensare.» Si girò verso Jean e le afferrò le mani. «Che ne diresti di andare domani all'anagrafe, a firmare un contratto per... diciamo cinque anni?»

Jean lo guardò negli occhi e decise che, tutto sommato, non le dispiaceva quel che sentiva quando guardava George.

«Facciamo dieci» rispose.

 

Jan tirava per le lunghe. Non c'era fretta, e poi voleva pensare. Era quasi come se temesse che approfondendo le cose la fantastica speranza si dissolvesse. Finché non aveva nessuna certezza, poteva continuare a sognare.

Inoltre, prima di passare all'azione, doveva consultare la bibliotecaria dell'Osservatorio. La donna conosceva benissimo tanto lui quanto il suo campo di interessi, e la richiesta l'avrebbe sicuramente sconcertata. Forse non era una cosa importante, ma Jan preferiva non correre rischi. Fra una settimana avrebbe avuto un'occasione migliore. Sapeva di esagerare con le precauzioni, ma l'eccessiva cautela aggiungeva un gusto goliardico all'avventura. Inoltre Jan temeva il ridicolo più di qualsiasi cosa che i Superni potessero fare per ostacolarlo, e se si stava imbarcando su una nave che faceva acqua era meglio che nessuno lo sapesse.

Per andare a Londra aveva un ottimo motivo, e gli accordi erano già stati presi da alcune settimane. Per quanto fosse troppo giovane e troppo poco qualificato per la carica di delegato, era però uno dei tre studenti che erano riusciti a farsi assegnare al gruppo ufficiale partecipante alla riunione dell'International Astronomical Union. In periodo di vacanze sarebbe stato un vero peccato perdere quell'occasione, dato che non vedeva Londra dall'infanzia. Anche se si trattava di argomenti che poteva capire, i rapporti che sarebbero stati presentati alla I.A.U. non gli interessavano gran che, ma, come ogni altro addetto a un congresso scientifico, sarebbe andato alle conferenze che si annunciavano più interessanti e avrebbe trascorso il resto del tempo a conversare con colleghi entusiasti o semplicemente curiosi.

Londra era cambiata enormemente in quegli ultimi cinquant'anni. Ora la sua popolazione non superava i due milioni, ma le macchine superavano questa cifra di almeno cento volte. Non era più un grande porto, perché, come in ogni Paese autosufficiente, l'intera fisionomia del commercio internazionale era profondamente mutata. C'erano ancora prodotti che alcuni Paesi facevano meglio degli altri, ma raggiungevano la loro destinazione direttamente per via aerea.

Altre cose, però, non erano mutate. La città era ancora un centro amministrativo, artistico e culturale. In questi campi, nessuna delle metropoli continentali poteva rivaleggiare con Londra, nemmeno Parigi, nonostante che molti protestassero affermando il contrario. Un londinese di un secolo prima sarebbe stato capace di ritrovare la sua strada, almeno nel centro, senza difficoltà. C'erano nuovi ponti sul Tamigi, ma al posto dei vecchi. Le grandi, squallide stazioni della metropolitana erano scomparse, o per lo meno sopravvivevano soltanto nei sobborghi. Ma le Camere del Parlamento erano immutate: il monocolo Nelson fissava ancora Whitehall, la cupola di St. Paul si levava ancora su Ludgate Hill, anche se adesso si vedevano edifici più alti sfidare il suo primato.

E le guardie montavano ancora di sentinella davanti a Buckingham Palace.

Fu solo nel secondo giorno del Congresso che a Jan si offrì l'occasione che cercava. Sembrava che non ci fosse nessuno in sede, in quel momento. Jan, stringendo nella mano il suo cartoncino di socio, come un passaporto, nell'eventualità di qualche controllo inatteso, non ebbe difficoltà a trovare la biblioteca.

Gli ci volle quasi un'ora per trovare quel che cercava e imparare a servirsi dei grandi cataloghi stellari con i loro milioni di voci. Tremava lievemente quando cominciò a intravedere la fine delle sue ricerche e fu lieto che non ci fosse nessuno ad assistere al suo nervosismo.

Rimise a posto il catalogo e rimase per molto tempo seduto immobile, fissando, senza vederla, la parete coperta dagli scaffali zeppi di volumi.

Infine si allontanò a passo lento per i corridoi silenziosi e giù per le scale. Aveva evitato l'ascensore, perché voleva essere libero e non rinchiuso in uno spazio angusto.

Aveva la mente ancora in pieno caos quando attraversò la strada per raggiungere il parapetto del Lungotamigi, dove lasciò che il suo sguardo seguisse il fiume nel suo lento corso verso il mare. Passeggiando lentamente passò in rassegna i dati di fatto, uno dopo l'altro.

Dato N. 1: nessuno, alla festa di Rupert, poteva sapere che lui avrebbe fatto quella particolare domanda. Non lo aveva saputo nemmeno lui fino al momento di formularla, come spontanea reazione alle circostanze. Pertanto, nessuno avrebbe potuto preparare una risposta o averla già avuta nella mente.

Dato N. 2: NGS 549672 probabilmente non significava niente per nessuno che non fosse astronomo. Sebbene il grande National Geographic Survey fosse stato completato da mezzo secolo, la sua esistenza era nota soltanto a qualche migliaio di specialisti. E prendendovi un numero qualunque a casaccio, nessuno avrebbe potuto dire in quale punto del cielo si trovasse quella stella particolare.